Noi, prof del Sud, abituati a parlare la lingua italiana (e a insegnare italiano)
Riceviamo e pubblichiamo
È di qualche giorno fa l’articolo apparso sul Corriere della Sera nel quale una docente di un Liceo della Locride denuncia la pessima abitudine dei propri alunni nel parlare il dialetto per esprimersi, non solo in contesti informali, come quelli familiari, ma anche in quelli più formali, come a scuola, attribuendo la “colpa” di questo al contesto, spesso degradato dell’entroterra locrideo, e ad alcuni docenti, suoi colleghi, della scuola primaria e secondaria di primo grado. Il caso sopraccitato non è l’unico: i risultati disastrosi delle prove Invalsi 2019 sembrano confermare il netto divario tra Nord e Sud tanto da scatenare articoli in cui si parla di nuova guerra ai dialetti da parte delle scuole. Quest’ultima affermazione, in particolare, ci sembra aberrante. Lungi dal voler sollevare inutili polemiche di fronte a problemi evidenti come quelli che la scuola italiana –tutta, da Nord a Sud- sta vivendo, riteniamo non deontologicamente corretto generalizzare, soprattutto quando si attribuisce la scarsa conoscenza della lingua italiana all’uso del dialetto, stigmatizzandolo come idioma tipico dell’entroterra, o riferendosi a quei colleghi che quotidianamente si esprimono in lingua italiana, facendosi promotori non solo dell’insegnamento, ma anche della diffusione della nostra lingua nazionale.
Com’è noto, la scuola, fin dai tempi dell’Unità d’Italia, è stata un mezzo per diffondere l’uso dell’italiano, conosciuto e parlato, meno scritto, all’epoca, da un’esigua fetta di popolazione. È altresì noto che, sebbene le aree maggiormente dialettofone siano circoscritte al Sud e nelle Isole, molte aree italiane del nord-est risentono di una certa dialettofonia. Il Veneto, per l’appunto, è la regione d’Italia in cui il dialetto è ancora oggi ampiamente diffuso. Per non parlare, poi, delle scuole ladine, friulane o dell’Alto Adige, dove il bilinguismo, oggi, è una costante indispensabile del patrimonio linguistico locale. Anche nelle scuole del Sud, per così dire, inferiori, l’italiano si parla e si insegna senza alcuno sforzo, semplicemente perché è la nostra lingua.
Ci chiediamo, dunque, perché screditare i docenti del Sud, gli stessi che per anni si ritrovano a lavorare al Nord con la stessa dedizione con la quale lavorerebbero nel loro territorio; e viene spontaneo chiedersi perché continuare a screditare il dialetto, facendone uno strumento di stigmatizzazione geografico-sociale. Autorevoli testi di sociolinguistica (Sociolinguistica dell’Italia contemporanea di M. D’Agostino, tanto per citarne uno) affermano che chi è esclusivamente italofono ha meno capacità di comprensione rispetto a chi invece usa italiano e dialetto nei diversi contesti.
Indubbiamente, l’italiano è la lingua nazionale ed, altrettanto indubbiamente, è la lingua che deve essere appresa, compresa e utilizzata in quanto strumento di comunicazione ad ampio raggio. Ma il dialetto, lingua a tutti gli effetti con una propria struttura ed entità, rimane una risorsa dal valore culturale e storico inestimabile. Capita spesso –e anche ai più colti, si intenda- di usare il dialetto per l’espressività che esso riveste e in virtù del fatto che molte espressioni dialettali veicolano significati di una tale intensità che sarebbe impossibile trasmettere con l’italiano. Lo stesso Pasolini, che negli anni ’50 si inserì nel dibattito linguistico del tempo, era convinto dell’importanza del dialetto quale strumento per allontanare l’individuo da una realtà omologata e omologante, asettica e industriale. Nel calarci anche noi nel dibattito di questi giorni, riteniamo opportuno, in primis, ribadire che il dialetto non vada demonizzato ma usato in un sistema linguistico in movimento, fatto di lingue vive che, come tali, si trasformano continuamente; inoltre, ci schieriamo dalla parte di quei docenti e di quelle scuole del Sud che, quotidianamente e instancabilmente, lavorano con la lingua italiana e per la lingua italiana.
Ricordiamo che ci sono istituti comprensivi, proprio nella Locride, che investono annualmente le loro risorse in buone pratiche linguistiche: dai progetti di consolidamento, dove spesso si affronta il problema delle interferenze linguistiche dell’italiano con il dialetto, ai corsi di avviamento al latino per migliorare e potenziare le competenze in lingua italiana. Riteniamo che non siano i docenti o i dialetti a dover essere sostituiti o rimpiazzati, ma i metodi e gli strumenti che la scuola e la famiglia, con lo stesso grado di responsabilità, hanno il dovere di dare ai giovani per far sì che italiano e dialetto possano convivere, il primo come bagaglio di vita, il secondo come testimonianza di un retaggio storico e culturale senza tempo.
Un gruppo di docenti della Locride