Saviano: “Se società e politica abbandonano gli immigrati, di loro si occupa la mafia che o li arruola o li schiavizza”
Notizia tratta da: repubblica
La storia del nostro Paese è una storia di pieni e di vuoti. Soprattutto di vuoti, vuoti che però non restano tali a lungo perché lo spazio a nostra disposizione è limitato e quindi va occupato tutto. Il vuoto costa caro, il vuoto vale oro. Col vuoto si possono fare affari da decine di milioni di euro. Il vuoto va sfruttato, difeso, presidiato. Il vuoto è una grande metafora, una metafora che spiega moltissime cose. Di certo spiega per cosa sia morto Soumayla Sacko, il 29enne maliano ucciso a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia.
Ucciso mentre, insieme a Madiheri Drame e Madoufoune Fofana, prendeva lamiere (dalla ex fornace “La tranquilla”, sotto sequestro da anni) per costruire una baracca che non prendesse fuoco. Appena la notizia dell’omicidio è iniziata a circolare, la prima ricostruzione è stata questa: il maliano stava rubando e gli hanno sparato. Sono poi seguite altre ipotesi che ovviamente non potevano ignorare il ruolo che Soumayla Sacko ricopriva nella comunità africana che coltiva la Piana di Gioia Tauro. Soumayla non era un ladro, ma un attivista dell’Usb, in prima linea per tutelare i diritti degli immigrati schiavizzati nelle campagne calabresi.
Gli inquirenti sospettano dell’omicidio di Soumayla Antonio Pontoriero, agricoltore della zona, che pare presidiasse la fornace da furti attribuiti agli extracomunitari.
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A che titolo presidiasse — è il nipote di uno degli indagati per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici nel terreno dell’ex fornace , ma a quanto pare parla di quel luogo come di «roba sua» — e cosa ci fosse ancora da rubare dopo quasi dieci anni di sigilli, resta da chiarire. Ma forse, in quel luogo, su cui si estende la longa manus dei Mancuso di Limbadi, a essere tanto disperati da prendere comunque materiale erano solo gli immigrati. O forse, nonostante non ci fosse più niente da rubare se non lamiere, presidiare significava dire: noi ci siamo e non permetteremo ad alcuno di usare questo vuoto come fosse terra di nessuno.
È quindi il luogo dove è morto Soumayla l’origine di tutto. Sì, il buco nero che in questi anni si è allargato a dismisura e che ha fagocitato la Calabria — e il Sud intero — nell’assenza della politica. Tanto assente da non essere in grado nemmeno di leggere e interpretare ciò che accade, di essere presente e provare a dare risposte.
Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha ricordato Soumayla in Parlamento solo giorni dopo la sua morte. Il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, non ha ancora pronunciato una parola su un attivista che si occupava di condizioni di lavoro, una materia che sarebbe di sua competenza. E poi c’è il silenzio dell’onnipresente ministro dell’Interno, Matteo Salvini, entrato in Parlamento come senatore eletto proprio nel collegio di Rosarno, Calabria, Italia. O forse no, forse Salvini quella terra nemmeno la considera Italia.
Dunque, è morto un attivista maliano che faceva, in condizioni di estremo disagio e di estremo pericolo, il lavoro che dovrebbe fare la politica e che, a quanto pare, come sempre, la politica non farà. E non lo farà perché la Calabria serve a racimolare voti e far salire senatori in Parlamento; svolta questa funzione, che resti pure ostaggio delle organizzazioni criminali, che in fondo riescono anche a mantenere un certo ordine, come e a quale prezzo, poco importa.
Ma tutto parte da San Calogero. Del luogo dove è stato ucciso Soumayla, la fornace oggi in disuso, l’inchiesta “Poison” parla come di una discarica illegale dove tra il 2000 e il 2007 sarebbero state intombate nel sottosuolo circa 130 mila tonnellate di rifiuti tossici e pericolosi.
Ecco, questa è la dinamica del Sud, da sempre: spazi vuoti riempiti di merda, sopra e sotto terra. Merda di ogni tipo: stupefacenti e monnezza. La fornace di laterizi di San Calogero, chiamata “La tranquilla” per l’omonima località in cui si trova — nome che oggi suona inquietante — secondo l’inchiesta sarebbe stata usata per lo smaltimento illecito di rifiuti di provenienza industriale, in particolare delle centrali termoelettriche a carbone dell’Enel di Brindisi, Priolo Gargallo (Siracusa) e Termini Imerese (Palermo). Il vecchio titolare della fornace, Antonio Romeo, era morto in circostanze misteriose, precipitato con la sua auto lungo il costone della provinciale per Nicotera. Dall’inchiesta emerge che il meccanismo con cui si intombava era semplice: sulla carta l’organizzazione faceva risultare che i fanghi industriali sarebbero stati riciclati nel campo dell’edilizia e invece venivano semplicemente sotterrati, nonostante avessero alte percentuali di nichel, vanadio e cromo. Un giro d’affari, secondo la Guardia di Finanza di Vibo Valentia, di 18 milioni di euro. Vicino alla fornace si estendono agrumeti e dal luglio 2010 il prefetto di Vibo Valentia ha ordinato la distruzione della frutta coltivata in quell’area.
Ma l’attenzione per la fornace oggi è massima perché siamo a un punto di svolta per chi ha interessi su di essa. Il 28 giugno è stata fissata un’udienza del processo “Poison” e quel giorno potrebbe essere dichiarata la prescrizione. A quel punto l’area della fornace potrebbe tornare nella disponibilità dei titolari. L’anno scorso, il deputato del M5S Paolo Parentela si è occupato di questa vicenda in un’interrogazione parlamentare: sarebbe opportuno che trasmettesse quanto di sua conoscenza ai colleghi della maggioranza. Parlarne, approfondire e soprattutto essere fisicamente a San Calogero e a San Ferdinando ora non sarebbe solo auspicabile, ma sarebbe proprio quello che la politica per troppo tempo non ha fatto e oggi deve fare. Altrimenti il cambiamento dov’é? Perché questo è San Calogero, questo è San Ferdinando e questo è il Sud: quel vuoto abbandonato a se stesso, quel vuoto che gli appetiti criminali possono riempire, quel vuoto infelice in cui ci si ripetono fesserie come «non c’è lavoro per noi, figuriamoci per voi» tanto spesso da iniziare a crederci sul serio. E nel frattempo gli immigrati vengono, occupano spazi abbandonati, fanno lavori abbandonati, prendono materiali abbandonati per costruirsi ripari che non brucino nelle campagne arse dal sole. Quindi non vengono a rubare lavoro ai figli legittimi di questa Italia, ma a fare lavori che per gli italiani non hanno valore.
E dove non c’è più valore per il lavoro, c’è valore per la schiavitù, c’è spazio per la schiavitù. Qualcuno dichiara che i migranti diventano braccia operative della criminalità organizzata: quando questo accade lo Stato ha fallito due volte, perché le organizzazioni criminali hanno sempre avuto un’attitudine xenofoba ma poi, quando capiscono che c’è convenienza, traggono il massimo vantaggio possibile. Perché lasciamo alle mafie un margine d’azione tanto ampio? Del resto, i rapporti tra comunità immigrate e criminalità organizzata ci raccontano anche la storia, che non ci piacerà per niente, dei rapporti tra le comunità immigrate e la politica, e la società civile.
Quando nel 1989 Jerry Masslo fu assassinato a Villa Literno, 200 mila persone scesero in piazza a Roma e fu allora che l’Italia riconobbe agli stranieri extraeuropei lo status di rifugiato. Quando nel 2008 Giuseppe Setola, con il suo gruppo di fuoco, compì la strage di Castel Volturno come atto terroristico per provare a dominare l’intera comunità africana, le reazioni della società civile si fecero sentire e fu in quel momento che dissi, riferito alla marcia pacifica che seguì la strage, che i migranti vengono in Italia non solo a fare lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma anche per difendere diritti che gli italiani non vogliono più difendere. Al tempo ad attaccarmi per queste mie parole furono i Salvini — che allora erano ancora pochi — e i neonazisti di Stormfront; a tanti altri le mie sembrarono parole di buon senso. Poi ci fu la rivolta di Rosarno, nel 2010, come reazione al ferimento da parte dei figli di un boss locale di due extracomunitari, a cui avevano sparato addosso come fossero bestie da scacciare. E poi arrivò Yvan Sagnet, l’ingegnere del Camerun che nel 2011 guidò il primo sciopero organizzato di migranti nelle campagne di Nardò, che accese i riflettori sui processi al caporalato e pose la necessità di una legge più strutturata. E pensare che a me tutto questo sembrava troppo poco, che ho sempre sperato che potessimo fare di più, e invece i ragazzi che hanno manifestato per la morte di Soumayla erano pochi, così pochi e circondati da un clima politico fetido, da farmi rimpiangere quei risultati. Manifestavano con cartelli fatti alla buona: pezzi di cartone col volto di Soumayla stampato su fogli A4. E, colpo di grazia, alla manifestazione per la morte di un ragazzo straniero che difendeva i diritti dei lavoratori, non era presente uno solo dei capi dei maggiori sindacati confederali.
Non so se sia sufficientemente chiaro ciò che sta avvenendo: man mano che società civile e politica abbandonano gli immigrati, lasciando un vuoto, di loro si occupa la criminalità organizzata, che quando riesce li arruola, quando conviene li schiavizza. Il Sud è una storia di spazi pieni e vuoti: la logica è la stessa per tutto, per la terra e per gli uomini. La terra abbandonata diventa discarica, i migranti demonizzati, isolati e abbandonati in attesa di essere cacciati, diventano per le mafie prede inermi.
Però il cortocircuito nasce per tutti, per la politica e per le organizzazioni criminali, quando ci si trova al cospetto di persone come Soumayla Sacko, persone consapevoli del loro ruolo e forse anche dei rischi che comporta ricoprirlo.
Gli immigrati arrivano in territori svuotati dall’emigrazione: oltre 200 mila persone ogni anno ormai lasciano l’Italia e il dato singolare è che gli italiani all’estero sono in numero quasi pari agli stranieri in Italia: 5 milioni. Gli italiani se ne vanno perché non c’è lavoro? Non esattamente: gli italiani se ne vanno perché vogliono migliorare le loro condizioni di vita, perché non vogliono — come dar loro torto — raccogliere arance e pomodori a due euro l’ora per 12 ore al giorno. Gli immigrati vengono a fare questi lavori e mentre noi siamo fermi a «li vogliamo o non li vogliamo» c’è chi ha già deciso che servono e senza clamore li usa. Usciamo dunque da questa gabbia e lavoriamo per garantire agli immigrati che si trovano e lavorano in Italia permessi di soggiorno e contratti di lavoro dignitosi. Questo dobbiamo fare e non perché siamo buoni, non perché siamo caritatevoli, non perché è giusto, ma perché solo così l’Italia può sopravvivere. C’è del lavoro, c’è chi se ne occupa, facciamo in modo che tutto rientri nella legalità. Da questa prospettiva, cosa significa che non possiamo accogliere? Dove sarebbe l’invasione? Quand’è esattamente che abbiamo smesso di ragionare?
Oggi dobbiamo essere al fianco delle comunità migranti. Dobbiamo farci garanti dei loro diritti come esseri umani e come lavoratori. La loro dignità è la nostra dignità. La loro vita è la nostra vita. Se non lo facciamo, il vuoto che lasciamo noi lo riempiono le organizzazioni criminali che vendono allo Stato la loro capacità di domare, con la violenza e la sopraffazione, ogni possibile e sacrosanta richiesta di diritti e dignità.
È questo che vogliamo? Che le mafie gestiscano ciò che noi non riusciamo a gestire? È questo che chiediamo alla politica? Di armarci contro i nostri alleati invece che combattere, insieme, un avversario comune?
Le comunità migranti sono ormai nel Dna del Sud, perché al Sud la terra è piena del loro sudore, del loro sangue, perché la terra accoglie la placenta in cui nascono i figli neri d’Italia. Non solo italo-africani ma afro-meridionali. A San Calogero è stato ucciso un meridionale e altri due sono stati feriti. Meridionali che sono come sangue che torna a scorrere in vene che stanno subendo un’emorragia letale, di italiani che emigrano. E per fortuna Soumayla Sacko, Madiheri Drame e Madoufoune Fofana arrivano esattamente nel posto da cui tutti vogliono scappare. Riempiono un vuoto e dobbiamo per questo esser loro grati. Il cambiamento, quello vero, parte da qua. E non ci sono scorciatoie.
Roberto Saviano