Per ricordare Francesco Tuccio ripubblichiamo il suo racconto “La giovinezza a Caulonia”
GIOVINEZZA
Il 12 novembre è sempre una ricorrenza triste per la Redazione di Ciavula perchè in questa data è venuto a mancare Francesco Tuccio.
Ripubblichiamo un suo scritto, perchè attraverso le sue parole possiamo ritrovare la sua “infinita giovinezza”.
Ciao Francesco, sei sempre con noi
Giovanni Maiolo
Nel paese arroccato, sporto come una finestra sul mondo, vivemmo la giovinezza, l’età degli immortali. E ci bruciammo come falene impazzite ai suoi ardori.
Tempo di sommovimenti fu, di fuochi e visioni contrapposti, dei due mondi.
Quel tempo inciso dal turbinio dei simboli: Che Guevara, Ho Chi Minh, Allende, Jan Palach, Dubcek, Martin Luther King. Kennedy, Krusciov, Giovanni XXIII. Berlinguer, Lama, Guido Rossa, Aldo Moro, Moravia, Pasolini, Levi, Calvino, don Milani, Barbiana.
Quel tempo segnato dalla girandola dei luoghi: scuole, università, triangolo industriale, grandi città, Reggio Calabria, Eboli, Sud piagato, Sud piegato, Sud ribelle. Autunno caldo, anni di stragi e di piombo. E il paese secolare tornava a svegliarsi di schianto alle tensioni che l’attraversarono e plasmarono tratti memorabili della sua storia.
E noi generazioni del dopoguerra, figli della diaspora, della ignoranza avita, salvati dalla scuola di massa.
Noi planetari con il naso appeso allo sbarco sulla luna e gli occhi rivolti alla terra, ai blocchi della divisione. Ci sentimmo asiatici delle risaie, africani schiavi dell’apartheid, delle bidonville, greci e cileni oppositori delle tirannie, negri dei ghetti delle Americhe, indigeni delle foreste, delle praterie e delle steppe, primitivi dei sud del mondo, roditori della cortina di ferro. Cercavamo le primavere dei popoli.
Noi marginali, insignificanti. Noi ombelico del mondo delle discussioni accese, infinite, nel cielo di strade lastricate di pietra, del dedalo dei vicoli contorti e delle piazze affollate, tra le stelle di notti insonni, al lume dei lampioni che non proiettavano ombre.
Noi tra la gente, la nostra gente: emigranti, zappatori, seminatori, raccoglitori d’arance, d’olive, d’uve, di gelsomini, operai dei cantieri delle fiumare e dei boschi, contadini, artigiani, alluvionati. Entrammo nelle case per le battaglie civili, diventammo divorzisti, abortisti, femministi. Percorremmo le strade dalla marina alla montagna, delle città.
Noi non fummo, noi scegliemmo l’appartenenza, la contraddizione, la sconfitta della terza via. Il nostro tempo immortale fu effimero, caduco, ma non vano. Non si può scambiare. Non si può perdere l’identitaria fierezza d’averlo voluto, vissuto nelle gioie e nelle amarezze. Oggi saremmo vite al crepuscolo senza anima, senza infinita giovinezza.