L’ultima generazione politica è finita: è tempo che ne risorga una nuova
di Antonio Larosa
Gli ultimi trent’anni, quelli dell’ordine neoliberale tutto incentrato sull’egoismo dell’homo economicus e sulla subalternità dei beni sociali alla logica cinica del profitto, quelli dei consigli di amministrazione enormemente più influenti dei consigli democraticamente eletti, hanno prodotto – fra tanti altri – un vulnus difficilmente sanabile e una crisi collettiva cui urgerebbe un’immediata riparazione e manutenzione: vulnus e crisi collettiva che evocano la terrificante scomparsa della politica, intesa soprattutto come visione d’insieme, partecipazione popolare e consapevole, democrazia discorsiva.
Seguiamo il dibattito pubblico, il confronto dialettico fra idee e pratiche divergenti, che dovrebbero essere alla base di una sana politicizzazione dei gruppi umani organizzati in collettività: a qualunque livello, qualunque sia il contesto territoriale e spaziale prescelto, la politica è letteralmente esangue, sovrastata al minimo da una logica di amministrazione fin troppo arida, sostituita nel peggiore dei casi da un inguardabile marketing uso social media o da un carrierismo privo di qualsivoglia respiro ideale o di prospettiva. Siamo tutti spettatori, e perciò stesso vittime, di un confronto pubblico sciatto, rachitico, senza lo slancio richiesto dai tempi vorticosi che viviamo, strutturalmente incapace di incastrare i pezzi minimi del mosaico sociale, basato sulla pochezza delle contingenze quotidiane.
Quando, nella seconda metà degli anni ’90 e poi nel passaggio fra vecchio e nuovo millennio, iniziai ad occuparmi concretamente di politica, a cimentarmi nell’impegno pubblico guidato da cultura e pratica relativi, divenne naturale incrociare esperienze le più variegate. Vi erano ancora le sedi politiche, le sezioni di partito, luoghi di discussione quasi pedagogica, realmente operanti anche nella pratica quotidiana. Vi erano ancora battaglie sul merito delle questioni, calate nello spazio pubblico, soggette al classico processo dialettico tesi-antitesi-sintesi. Vi erano ancora istituzioni democratiche rappresentative di culture politiche e di umori popolari, anche in un piccolo angolo di mondo nella Locride. Vi erano, soprattutto giovani che sognavano e militavano, che non si rannicchiavano in comode posizioni di sano egoismo, una generazione – nata a cavallo fra fine anni ’70 e prima metà degli anni ’80 – che ancora ricercava l’impegno politico come atto di dedizione verso la propria comunità e che progettava il cambiamento quale essenza intima della politica stessa.
Quella generazione – che elaborava in piena condivisione documenti e progetti vari, che studiava con l’ansia di migliorare la propria caratura intellettuale e politica, che affiggeva i manifesti o distribuiva i volantini, che partecipava alle manifestazioni o addirittura le organizzava, che faceva campagna elettorale in uno spazio aperto – è stata l’ultima generazione densamente politica: non vi è stata, a seguire, altra generazione pronta a pensarsi come soggettività politicamente impegnata, in grado di conquistare il suo tempo e di trasformarsi in strumento di azione democratica e rappresentativa. Basta scorgere il quadro d’insieme intorno a noi, desolante e grottesco insieme. L’ultima generazione densamente politica, insistiamo: in fondo, lo aveva già intuito il grande Pier Paolo Pasolini, quando in un’intervista del 1975 pochi mesi prima di morire disse, “prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata”.
Non bisogna sottoscrivere alcuna resa: vi è sempre tempo e spazio perché la politica riprenda il ruolo che le è necessario, perché la democrazia torni a vivere fra le contraddizioni e le intuizioni di una sana disputa dialettica. Tornare alla militanza politica, alla partecipazione consapevole dentro un movimento civico o un partito organizzato, è opportunità reale di uscita dalla crisi degli ultimi anni: io provo a farlo partecipando a Gioiosa Bene Comune o aderendo a Sinistra Italiana, ma urge comunque una nuova generazione ancora in campo, una nuova generazione politicizzata nel senso più alto del termine, in grado finalmente di succedere alla mia (nostra) generazione. Sono i giovani a poter sprigionare, talvolta anche con la giusta dose di arroganza, l’energia trasformativa che rende la politica e la democrazia strumenti di inaudita potenza. Sono i giovani che non guardano al futuro come un orizzonte chimerico, ma puntano a conquistare di prepotenza il presente, apportando quell’innovazione sociale e culturale che sola mette a valore le potenzialità di una comunità.
Il mio augurio – umilmente laico e profano – di Buona Pasqua vuole “accomodarsi” in questo quadro di prospettiva: la democrazia risorga ancora nella forza e nella passione di una nuova generazione densamente politica, rilanciando un’anima e una pratica ancora alla ricerca di una grande rivoluzione. Perché come ebbe a dire qualcuno, “il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore”. Proprio come il grande profeta ebreo, nato come Gesù e reso immortale come Cristo, rivoluzionario che rinasce sempre a nuova vita con il suo messaggio politico (sì, proprio politico) di amore verso gli ultimi e di giustizia sociale per tutti.
Ancora Buona Pasqua.