Cosimo Cavallaro: “Dallo Stretto al Pollino un solo grido: Fermatevi!”
di Cosimo Cavallaro
Se avessi voluto realizzare il collage fotografico a corredo di questo scritto sei mesi addietro non avrei potuto farlo perché, a quell’epoca, il paesaggio non era quello che vediamo oggi ma un florido e rigoglioso bosco di castagni. Ma per ridurre quello che era un castagneto in una specie di “Deserto dei Tartari”, quello che si definisce “homo sapiens” ma che è tanto homo e poco sapiens, non ha impiegato centoottanta giorni poiché, con i moderni mezzi distruttivi, gli bastano pochi giorni per abbattere ciò che la natura costruisce in decenni.
Ora, non essendo un agronomo, non sono in grado di capire quanto questo scempio per gli occhi sia indispensabile e tecnicamente corretto o se è solamente frutto dell’avidità umana. Ma, considerando che al G20 del 2022 si è stabilito che, per salvare il pianeta, entro il 2030 bisogna piantare mille miliardi di alberi, immagino che non bisogna essere aquile per capire che ci si sta muovendo controcorrente rispetto ai tempi che stiamo attraversando.
Purtroppo, quello che si riesce a documentare è una piccola appendice di una realtà che si protrae da parecchio tempo. Basta percorrere le strade di montagna delle nostre zone per renderci conto di come la mano dell’uomo, manovrata da una cultura preistorica, arraffona e predatoria, si abbatte sulla natura indifesa incendiando, inquinando e radendo al suolo interi boschi; magari con tanto di carta bollata al seguito che ne avvalora e ne autorizza l’azione.
E lascia ancora più sgomenti osservare come interi boschi siano stati ridotti ad un ammasso di ramaglie destinate a marcire, abbandonate alla rinfusa ad occludere i sentieri impedendo il passaggio, a chi vorrebbe fare una semplice passeggiata nella natura, magari alla ricerca di funghi. Addentrarsi in quelle boscaglie, dove i nostri antenati avevano piantato castagni, faggi e larici, ed oggi trasformati in sterili pinete (forse perché è più facile e redditizio speculare sul legno di pino?), è ormai uno strazio. Immondizia, vetro e plastica la fanno da padroni. Discariche a cielo aperto e spiazzi usati per bivaccare dove cinghiali a due zampe hanno lasciato la loro firma intinta nel sudiciume dei loro avanzi.
Nei boschi dove un tempo cantavano gli uccelli si odono sempre più i sibili delle motoseghe e il rombo delle ruspe che tracciano sentieri, là dove dominavano alberi secolari, allo scopo di trasportare tronchi morti destinati alle segherie. Sono questi i suoni del progresso che con la loro possenza pretenderebbero di tacitare l’urlo straziante della natura martoriata. Un lamento soffocato in un linguaggio che la maggioranza degli esseri umani, frastornati, come sono, da un benessere ingannevole, non riesce a comprendere.
Ma la natura possiede altri criteri per farsi ascoltare e, quando si inalbera, non perde tempo in preamboli e la sua reazione non è soltanto allarmante ma, anche e soprattutto, imprevedibile. Ne abbiamo la riprova sempre più spesso e, nonostante il tanto decantato progresso, non abbiamo ancora inventato nulla per proteggerci dagli eventi atmosferici improvvisi come alluvioni, siccità, terremoti e quant’altro.
Quando si dice: “meditate gente, meditate…”.