Caulonia: vecchio presepe
“U sei i Nicola.” “L‘ottu i Maria.” “Lu vinticincu lu bellu Messia.”
E a dicembre tornava un algido cielo fiabesco, denso di armonie di forme frastagliate fuggenti, di colori e luci screziati. Il paese fremeva schiarito al sole pallido e sbieco. Quegli squarci irradiati intiepidivano l’aria e la terra, allontanavano i timori delle brume, delle grandinate, delle gelate, della sferza dei venti, delle torbide fiumare: la disperazione dei giardini d’arancio cesellati nelle culle di fondovalle, imperlati dalle rugiade tralucenti le speranze delle fatiche contadine.
Sulla rupe giungevano i fiati del cosmo profondo. Un granello pulsava nell’essere immenso e silente. Le luminarie dell’Immacolata all’ultima falce di luna volgevano vigorose lingue di fiamme e sciami di faville crepitanti, e sugli slarghi delle chiese baluginava un riverbero di legna trasudante linfe di terra per scacciare il male dalla terra. Il sacro fuoco pagano introduceva al Natale. Il Carro dell’Orsa e le figlie di Atlante giacevano immoti, sospesi nell’attesa della notte più lunga della cometa, e il paese diveniva un trepido formicaio incessante, riempiva i vicoli e le piazze e i lubrici sentieri di campagna. I giovani lesti approntavano sui tavoli e i tavolacci, negli angoli delle case e dei “catoi”, il proscenio su cui andava in scena il racconto di se stessi e delle memorie che gli scorrevano dentro fin dalle origini antiche.
Il presepe dipanava il racconto della vita tra il cielo e la terra. Nell’arco degli arbusti di mirtillo le mandarine stavano appese come mondi siderali, e nello spazio la volta di carta di cemento raggrinzita mostrava gli spruzzi delle costellazioni, e l’umanità e la natura lievitavano in un moto trascendentale di speranza e di pace. I crinali delle colline, i poggi, i pianori e i declivi erano modellati con i tronchi di fichidindia e ricoperti di tenero muschio, verde e odoroso di grano e di pascolo. Alle falde dei versanti scorrevano incise le fiumare, i meandri incassati e divaganti, le gole, i salti e le pozze. L’acqua scorreva per essere attinta negli stagni, inseminare le zolle, dissetare gli uomini e gli animali, muovere i mulini del pane. Le strade, i ponti e i muri a secco si diramavano come i pensieri inquieti rifuggiti nell’imo delle pietre, scivolati sulla sabbia giallastra e rossiccia, sparsa delle pedate leggere del loro passaggio. Tutto conduceva alla grotta di creta fresca, elevata come un’iride striata dai tanti colori, intiepidita dai soffi del bue e l’asinello sulla paglia ingiallita come fili d’oro germogliati dalle fatiche dell’uomo.
Sull’angolo alto, da cui s’apriva lo scenario, sorgeva il paese, un grappolo fitto di case, strette come un gregge impaurito dal passare del tempo. Le finestre mostravano i lumi accesi per infondere l’anima a quella vita che si riuniva attorno al braciere, quando la tramontana sfrangiava violenta brividi di gelo. Più in basso le torri alte del castello merlato coi i Re Magi in groppa ai cammelli o ai cavalli, evocavano le lontananze allucinate dei sud del globo, gremivano la fantasia e i sogni epici dei ragazzi.
Le statuine d’argilla cotta avevano il volto dei pecorai che ricoveravano le greggi negli stazzi ai piedi della rupe e dalle caldaie annerite traevano le ricotte e il siero per ammollare il pane raffermo dei poveri, degli ortolani che ruotavano ai piedi dei contrafforti, dei contadini con la falce lungo i pendii, dietro ai buoi al giogo, bianchi ed enormi come animali preistorici. Le donne incarnavano la fierezza delle matriarche, portavano brocche e orci sulla testa, conficcavano la mano sinistra nel fianco per dare equilibrio al passo ondulante, coperto dalle sottane pieghettate fino alle caviglie scalzate; qualcuna lavava i panni presso la fontana o il greto del torrente, li stendevano sulle fratte o sulle pietre di granito attondate, e qualche altra desiderosa d’essere madre con i panni ne fece un figlio per andare alla grotta e tornare con i vagiti in carne e ossa. I mastri stavano nelle botteghe e nelle grotte. C’era l’arrotino e il vasaio. Chi batteva l’incudine e chi strusciava la pialla. Chi con il forno acceso infornava il pane e chi davanti alle botti zaffate vendeva il vino, mentre gli sfaccendati ballavano al suono dei pifferi e delle zampogne. L’asino paziente non mancava mai, spingeva affaticato le ruote del frantoio.
C’era perfino lo scemo del paese, “l’ammagatu da stida”. Non partecipava al viaggio e non portava nulla perché nulla aveva da portare, stava immoto nella scena e da essa si staccava precorrendo il divenire dei millenni. Guardava sbigottito e incantato alla rivelazione della stella cometa. Aveva capito quel che soltanto gli umili possono capire: il mondo e la sua storia erano alla svolta di un grande cambiamento. E da questa intuizione derivava tutto il suo stupore.