Il dolore di una madre
Una donna arriva di corsa in ospedale. La sua bambina non respira più. Ha solo cinque mesi. I medici capiscono che è in arresto cardio-respiratorio. Tentano di salvarla. Ci provano per un’ora e mezza. Non serve a nulla. La bambina perde la vita.
Quando glielo comunicano, lei, mamma di vent’anni, urla, piange tutte le sue lacrime.
Noi non faremmo lo stesso? Certo che lo faremmo, e ci sarebbe concesso. Sarebbe un nostro diritto. Avremmo, e pretenderemmo, la comprensione di tutti.
Ma per lei è diverso. Il colore della sua pelle è diverso. La sua provenienza è diversa: arriva dalla Nigeria.
Così, nel Pronto Soccorso di Sondrio quella donna sola che urla la propria disperazione per la morte della figlia infastidisce i presenti, i quali commentano: “Mettete a tacere quella scimmia. Che fastidio”.
E ancora: “Non può essere così grave visto che gli africani fanno un figlio all’anno. Perdere un figlio per loro non è la stessa cosa”.
E ancora: “Urla? Sarà un rito satanico, tribale. Fatela smettere”.
La disperazione di quella giovane madre viene così sminuita ed esposta al ludibrio generale: probabilmente siamo arrivati a credere che persino il nostro dolore venga prima, e sia in qualche modo più autentico e giustificato, rispetto a quello degli altri.
Cercare parole che esprimano lo sdegno che avverto di fronte ad azioni simili equivarrebbe ad abbassarsi al livello di chi le compie.
Provo piuttosto compassione per l’esistenza frustrata, miserevole e miope di chi si nutre di odio al punto da doverlo, poi, vomitare addosso agli altri.
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