La recensione di Dyland Dog 463 “Non dovresti essere qui”
Prof. Romano Pesavento
In edicola dal 28 marzo Dylan Dog n. 463, “Non dovresti essere qui”, edito dalla Sergio Bonelli Editore, con soggetto e sceneggiatura di Barbara Baraldi, disegni Davide Furnò e copertina Gianluca e Raul Cestaro.
L’albo di Dylan Dog affronta diverse paure del nostro tempo; questa volta l’investigatore dell’incubo non si misura con zombie, vampiri, serial killer, ma con i turbamenti, le paranoie, le ossessioni che segretamente ciascuno di noi rimuove, quasi quotidianamente, o seppellisce nelle profondità della nostra psiche. Da cui a volte riemergono senza preavviso, risucchiandoci come un buco nero. Il deja-vù è un tema affascinante e controverso, afferente alla metempsicosi, alla psicologia e ad altre discipline scientifiche o dottrine filosofiche. Cosa significa è ancora da definirsi; quando accade lascia un’eco di incertezza e vertigine.
Barbara Baraldi riesce a rendere perfettamente l’angoscia e il disorientamento di chi smarrisce le coordinate spazio temporali e nel nostro caso si arriva a mettere in discussione il valore stesso dell’esistenza. Un po’ come Cartesio. Senza considerare che in un rigurgito “orwelliano” il dubbio che si possa venire condizionati e “addomesticati” anche nella sfera più libera e anarchica, che è quella onirica, sprofonda veramente nell’annichilimento totale.
Una trama inquietante e perturbante quanto mai che avvince e convince, intessuta di suggestioni impalpabili e incubi mostruosi. I disegni di Furnò accompagnano bene una storia che proprio perché paradossale parla profondamente di noi; la matita danza tra lampi di luce e tenebre “ossidianiche”; l’asettico rigore dei laboratori della clinica e l’esplosione virulenta dei demoni che albergano nel profondo inconscio, anche degli uomini più razionali.
In copertina, Dylan prigioniero di una rampa di scale inestricabile e ipnotica dall’alto viene osservato da un abbagliante ed enigmatico occhio. In modo inspiegabile, o forse sì, vengono in mente le parole del monologo di Amleto: “Morire,… dormire,… dormire! forse sognare…”