La riflessione di Cosimo Cavallaro sull’emigrazione e la patria
Rieccoci qui a dibattere furiosamente su quel fenomeno che ogni governo vorrebbe considerare un’emergenza e che, ormai avrebbero dovuto capirlo, è una costante che dalla Preistoria accompagna e determina le sorti dell’umanità intera. Tutte le “patrie” (così come al nostro governo piace definire le nazioni) del mondo, sono nate dalla mescolanza di genti provenienti da aree geografiche diverse che, per motivi svariati, spesso legati a catastrofi naturali, hanno abbandonato la loro terra d’origine, ovvero sono emigrati, per garantire la sopravvivenza a sé stessi e ai loro discendenti.
E cosa sono le nazioni se non pezzi di territorio sui quali gruppi non omogenei di migranti decidono di coabitare, fin quando le condizioni lo permettono, dandosi delle leggi comuni? E cos’è la cultura di una popolazione se non un miscuglio di consuetudini, di usanze, di comportamenti, di miti e di rituali, anche legati alla religiosità, accettati e praticati dalla maggioranza dei conviventi su un determinato territorio? E cosa sono i confini di una nazione se non linee tracciate su una carta geografica dai vincitori delle infinite guerre di conquista che l’umanità non ha saputo evitare? Il “creatore” del pianeta non ha creato l’Italia, il Giappone, il Messico, la Libia, etc. ma un pianeta sul quale sarebbero spuntati i mari, i monti, i laghi, i fiumi, le foreste, i deserti e le pianure. E, se per effetto di un cataclisma astronomico, fatto non impossibile se consideriamo le leggi che regolano gli equilibri del cosmo, la Terra dovesse scomparire non perirebbero solo i cinesi, gli africani, gli europei, etc., ma l’umanità intera.
Ci si chiederà il perché di questa premessa e la risposta non può che essere molto semplice: perché alle soglie ormai avanzate del ventunesimo secolo, sarebbe ora di finirla di “sparare minchiate” ogni qualvolta si parla di emigrazione per non dire di altre problematiche estremamente complesse. L’emigrazione non può scomparire, è primordiale, più antica delle nazioni che oggi si vogliono difendere ma che essa stessa ha contribuito a far nascere. Emigrare non è un capriccio, ma non è neppure un desiderio. Chi emigra, a volte sfidando la morte, lo fa perché è costretto ma ne farebbe volentieri a meno.
È dal 1990 che, con la legge Martelli sostituita in seguito dalla legge Turco-Napolitano, si cerca di dare soluzione al “problema” degli immigrati che giungono in Italia. Da allora ogni governo ha cercato di dire la sua cercando di gestire l’immigrazione, sempre più crescente, con la lente deformante dell’ideologia. I disperati che giungono sulle nostre coste, quasi tutti provenienti da Paesi ex colonie dell’imperialismo europeo, sono considerati, a prescindere, un pericolo per la sicurezza e l’integrità economica e culturale del nostro Paese. Una visione lombrosiana che lascia sgomenti, come dire che basta guardarli per capire che sono tendenzialmente dei malviventi dai quali non ci si può aspettare nulla di buono. Una visione semplicistica e feroce, da bar dello sport, da becero cameratismo da caserma. Una sentenza sconcertante per la gratuità con cui viene emessa in assenza di analisi oggettive. Ma quanto è difficile capire che, se arrivano clandestinamente a bordo di carrette del mare, è solo perché le nazioni ricche hanno chiuso tutte le porte “legali”? Si parla di clandestini irregolari ben sapendo che una persona è irregolare quando non rispetta le regole, ma la miseria non conosce regole se non quella di trovare una soluzione ad ogni costo. E noi italiani ne sappiamo qualcosa in merito.
Sono di questi giorni le dichiarazioni del governo italiano che vorrebbe “bloccare le partenze”. Un’operazione impossibile, come dire che si vorrebbero fermare le onde del mare bloccando il vento che le genera. L’emigrazione non può essere bloccata, tuttalpiù si può cercare di gestirla. Ma, affinché questo abbia possibilità di successo, è indispensabile la collaborazione tra le nazioni. Ed è corretto e sacrosanto rivolgersi a tutti quei Paesi che hanno fondato la loro attuale ricchezza sul colonialismo. Bene hanno fatto i governi del passato e quello attuale a chiedere il supporto dell’Europa ma, poiché la maggior parte delle nazioni hanno molti scheletri nascosti nell’armadio, italiani compresi, è necessario muoversi con diplomazia.
Non possiamo rivolgerci ai nostri partner europei con l’arroganza e la presunzione sbandierando ai quattro venti le pulsioni sovraniste o nazionaliste (“padroni a casa nostra”). Ciò è pura ipocrisia, se non autolesionismo, e non aiuta a costruire la cooperazione. Da che mondo è mondo, fare la voce grossa non ha mai risolto nulla, anzi. Probabilmente per limitare i presunti danni dell’emigrazione dovremo rivedere i paradigmi della nostra civiltà, della nostra economia e della nostra cultura: un lavoro immenso, che richiederà anni e sacrifici e che, quasi sicuramente, dovremo demandare alle generazioni future. Questa si che sarebbe una “rivoluzione copernicana”, una sfida per quell’Europa che, già in tempi lontanissimi, ha proposto al mondo intero un metodo di governo che, pur con i suoi limiti e difetti, rimane il miglior prodotto della politica: la Democrazia.
Concludendo, penso che sarebbe tempo di capire che chi si propone di governare (che altro non vuol dire se non amministrare) un Paese, deve studiare! E non solo le Lingue Straniere ma anche e soprattutto la Storia, l’unica guida che ci permette di capire ciò che succede intorno a noi ovvero, il raccolto di quanto abbiamo seminato in passato. Quando si dice che in Democrazia, i politici sono lo specchio della società che li ha eletti…
Cosimo Cavallaro