Il bambino che vendeva le borse ai bagnanti – di Cristiano Fantò
Qualche giorno fa mi trovavo in spiaggia, in compagnia dei miei amici. Il calore del sole era dolcemente mitigato dalla brezza marina. Sedevo placidamente in prossimità della battigia, inseguendo i miei pensieri e chiacchierando di argomenti tanto leggeri quanto, proprio per questo, necessari.
D’un tratto, ho visto sopraggiungere in lontananza una figura minuta e di bassa statura, che si faceva strada tra la sabbia e i sassi. Si trattava di un “venditore ambulante”, ma aveva qualcosa di diverso da quelli che, sovente, si incontrano sulle nostre spiagge: era un bambino, di 10 o 12 anni al massimo. Un bambino dagli occhi grandi e le spalle strette, cui la vita doveva aver insegnato troppo presto cosa significhi dover crescere in fretta per riuscire a sopravvivere.
Malgrado le braccia esili, riusciva a farsi carico con disinvoltura di innumerevoli borse da mare colorate che, munito di invidiabile pazienza, mostrava alle signore adagiate sotto i rispettivi ombrelloni. Alle espressioni seccate di queste, offriva in risposta l’innocenza di un contagioso sorriso. Quando mi è passato accanto, e per qualche interminabile istante i nostri occhi si sono incontrati, mi sono sentito infinitamente piccolo e terribilmente impotente. Se solo fossi riuscito a proferire parola, avrei voluto chiedergli scusa.
Scusa per tutte le volte in cui mi lamento a causa delle ragioni più futili, dimenticando di apprezzare ciò che mi circonda.
Scusa se rimango inerte mentre tu, per tirare avanti, vendi oggetti vari a disinteressati bagnanti.
Scusa se, poco dopo il tuo passaggio, imporrò a me stesso di continuare a fare ciò che stavo facendo, al solo fine di attenuare i sensi di colpa.
Scusa per questo mondo iniquo, in cui spesso l’area geografica in cui si nasce determina quale avvenire sia concesso sognare.
In pochi minuti, quel bambino si è dissolto nell’indistinta folla spiaggiata, salutato dalla stessa indifferenza che ne aveva accolto l’arrivo: l’indifferenza tipica di quando la coscienza si arrende al torpore della quotidianità, e financo le ingiustizie divengono normalità.
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