Nuovo testo in vernacolo calabrese della roccellese Pinella Schirripa: “Quandu canta a cicala, vai addunati jia ficara”
di Pinella Schirripa
La cicala è un insetto dalla vita breve ma intensa,come tanti grandi artisti. Molto amata dai poeti e cantori dell’antichità, era considerata il simbolo del bel canto, della melodia e della purezza. Socrate affermava che le cicale erano uomini , talmente appassionati di musica, che smisero di mangiare e bere al punto di morire d’inedia. Le muse, per ricompensarli, decisero di trasformarli in animali che avrebbero trascorso la loro breve esistenza cantando. Per Plinio il Vecchio erano simbolo di purezza perchè riteneva che si nutrissero di rugiada e quindi dal loro corpo non scaturivano escrementi. La loro importanza nella tradizione mitica e storica di Locri Epizephiri è attestata da abbondanti testimonianze iconografiche e testuali. Gli scavi nelle necropoli di c/da Lucifero, condotti nel secolo scorso, hanno portato alla luce delle cicale in avorio, depositate in alcune tombe di bambini.
Su un pinakes, rivenuto nel Persephoneion della Mannella ,è riprodotta la scena di una fanciulla(si pensa Kore) nell’intento di catturare una cicala. Ci sono state tramandate varie leggende nell’ambito della rivalità tra le poleis Locri e Reggio, legate al mito delle cicale, che sul suolo locrese cantavano, mentre su quello reggino rimanevano mute.
Lo scrittore romano Claudio Eliano ci tramanda l’esistenza di un patto tra gli abitanti delle due città magno-greche, in base al quale, sia gli che uni che gli altri , potevano transitare su un territorio di confine, nei pressi del fiume Halex, e lavorare i campi. Pare, che contrariamente agli uomini, le cicale non si accordarono, cosicché quelle che provenivano dal versante locrese in questo luogo si zittivano e mutando il loro comportamento affermavano che la fascia di terreno non era comune, ma di esclusiva proprietà reggina. Le cicale che arrivavano dal versante reggino, giunti in quel territorio neutrale, avrebbero potuto cantare, ma continuarono a rimanere mute perché consapevoli di trovarsi sempre su suolo reggino.
Un’altra leggenda ci racconta della contesa musicale tenutasi a Delfi, durante i giochi pitici, tra il citarista locrese Eunomio e Aristone, musico di Reggio. Mentre Eunomo suonava la sua cetra, una delle corde si ruppe, ed una cicala venne in suo aiuto posandosi su di essa, e sostituendosi al suono mancante, lo rese vincitore. In memoria di tal fatto i Locresi eressero una statua che rappresentava Eunomio con una cetra e la cicala sopra.
Un’altra leggenda ci è stata tramandata da Diodoro Siculo e racconta che Eracle, durante il ritorno dalle regioni dell’Occidente con i buoi di Gerione, giunto nella zona di confine tra Reggio e Locri, si fermò per riposarsi. L’ eroe infastidito dal canto delle cicale, pregò Zeus affinché le facesse sparire. Il suo desiderio fu esaudito, le disturbatrici furono allontanate e divennero mute per sempre. La cicala,venerata per le sue doti canore, simbolo dell’immortalità e fonte di ispirazione poetica, con Esopo, scrittore greco del VI secolo a.C. ,divenne simbolo dell’ozio, dell’inattività, di negligenza, di imprevidenza.
La favola, “la cicala e la formica”, adattata da La Fontaine, ci narra di un’allegra cicala che durante una calda estate, cantava sul ramo di un albero, mentre sotto di lei una formica faticava per trasportare chicchi di grano e farne scorta per la fredda stagione. Giunto l’inverno, la cicala affamata e tremante di freddo, bussò alla porta della Formica chiedendo cibo e riparo. Ma questa glieli negò, lasciandola morire assiderata. La morale della favola ci insegna che bisogna essere previdenti, premurosi e responsabili, oggi, per non pentirci domani. Il momento difficile che stiamo vivendo, la situazione di crisi estremamente profonda che stiamo attraversando, i vari eventi drammatici ,ci dimostrano come l’Italia è un paese che affronta le calamità ed i momenti gravi con degli interventi tampone, che agisce con una politica emergenziale e non di prevenzione. Alluvioni, frane, mareggiate, crolli di cavalcavia e ponti, incendi danno prova della precarietà delle strutture esistenti, di inadeguatezza dei controlli e l’assenza di manutenzione.
La pandemia causata dal covid-19 ha messo in evidenza i limiti del Sistema Sanitario italiano, ascrivibili principalmente ai tagli alla spesa avvenuti negli ultimi venti anni. E infine la guerra ucraino-russa che rischia di travolgerci, a causa del nostro sistema energetico piuttosto debole, e per le ridotte produzioni di grano nostrano. Il nostro modo di agire con avventatezza ed imprudenza, proprio come le cicale ci ha indottoa costruire nel greto dei fiumi, a cementificare lungo le coste marine, ad effettuare pochi interventi di sfalcio dei margini lungo le autostrade e ferrovie, a trascurare le operazioni di pulitura dei boschi. Precise scelte di finanza pubblica hanno portato ad adottare misure di contenimento delle spese nel campo sanitario, causando carenza di personale medico e infermieristico tanto da portare al collasso interi reparti di ospedali. E per come abbiamo potuto vedere dalle immagini trasmesse da tutte i canali televisivi , i pochi operatori sanitari, durante i terribili giorni della prima ondata di pandemia,si sono dovuti sottoporre a turni serrati per garantire il servizio, e nonostante la carenza di dispositivi di protezione individuale che li ha messi a grave rischio di infezione.
Non pensare al futuro ci ha portati a bloccare le trivelle che estraggono il metano dal mar Adriatico, il meno inquinante tra i combustibili fossili, il nemico del carbone, a lasciare nel sottosuolo almeno 90 miliardi di metri cubi di gas italiano ed essere dipendenti del gas russo, a non investire in nuovi impianti che ci farebbero avere il gas ad un prezzo pari a dieci volte in meno, ed in nuove energie alternative in modo intensivo. Negli anni, gli agricoltori hanno messo da parte le coltivazioni di grano perché non sufficientemente protetti dalla politica agricola, a favore di colture più redditizie. Non si è affrontata la questione di come incentivare lo sfruttamento dei terreni pur conservando standard di qualità e sicurezza, e ci siamo resi dipendenti dal grano russo e ucraino.
La cicala che prima ha cantato, ora balla di fronte al rincaro delle bollette e del carburante, al rischio di non avere farina, fondamentale per la produzione di prodotti essenziali alla nostra tavola e per l’esportazione, non dimentichiamo che la pasta è una delle nostre eccellenze nel mondo. C’è un’Italia cicala, e ci sono gli italiani, popolo formica, che sceglie di depositare una quota del proprio reddito, se pur piccola per l’attuale situazione economica, pensando al futuro. La ragione che induce al risparmio non è collegata soltanto al beneficio personale, ma anche alla convinzione che sia utile allo sviluppo economico, sociale e civile del Paese. La cicala ,simbolo positivo o negativo rimane la protagonista indiscussa dell’estate , il suo frinire è connesso col caldo, con le vacanze, con il riposo, con la spensieratezza, con il verde degli alberi e con i succosi frutti estivi.
Un proverbio della nostra tradizione popolare ci ricorda che appena questo insetto incomincia a cantare è tempo di accostarci all’albero del fico e verificare se i suoi dolci frutti sono maturi. Ed è a causa della cicala se Pascali e Bettina incominciano la loro giornata in malo modo.
Pascali-Mugghieri mia, ’ nzurdisti?
Bettina-Ancora no, eu sentu bona e specialmenti a notti quandu arrumpi;
Pascali-Stannu cantandu i cicali ;
Bettina – E tu sona!
Pascali- Quandu canta a cicala,vai addunati jia ficara;
Bettina -E va vidi, è capaci cha i gotti maturaru. Ti raccumandu :” scippa sulamentichiji cha cammisejia sciancata “;
Pascali-Non è megghiu si vai tu? Stamatina non vijiu tantu bonu!;
Bettina -E quando a stragi e quando a pipita a gajinejia mia è sempri malata;
Pascali-E’ curpa mia si na vota mi doli u dinocchiu, n’attra vota a schina, oppuri i moli?
Bettina -Tutti scusi ,pa nommu u fai nu serviziu ‘nta casa;
Pascali-U gurdu non cridi u dijiunu e lu sanu non cridi u malatu;
Bettina – Non ‘ndai nenti ! Tu si comu u malu metituri chi ‘nci ‘mpacciuni i canneji.
Pascali- Si vidi puru da facci cha sugnu malatizzu. Cui non cridi u doluri ,u guarda u culuri;
Bettina – Malatu o no, u poi conzari u pedi da buffetta?
Pascali– Mi doli na spajia, u conzu doppu;
Bettina – U poi è parenti du mai, si vidi cha quando cadi , mangiamu ‘nterra;
Pascali- Domani u conzu i sicuru;
Bettina -Paccia è chijia pecura chi s’affida o lupu;
Pascali– Staci bonu unu finu a chi boli l’attru.Dammi na manu, cha u conzu ;
Bettina -Mo non pozzu, sugnu cha gugghia ‘nte mani. O allattu o ‘mpasciu u figghiolu!
Pascali-Ma chistu figghiolu a ttia non ti crisci mai? D’avi armenu trent’anni chi mi rispundi ad accussì;
Bettina -Veramenti i solitu dicu : o cantu o portu a cruci;
Pascali-Se pà chistu, mi rispundi puru: o frijiu o guardu a gatta.A favella non ti manca propriu;
Bettina -Sempri menu i sorita, cha l’avi puru chi santi ‘nta chiesa;
Pascali-Ammazza, ammazza, siti tutti na razza;
Bettina – Eu a stessa razza sua ?Ti sbagghi proprio.
Pascali– Astutati sta lumera cha siti tutti i na manera;
Bettina – Ti poi lamentari i mia! Si servutu comu u previti all’artaru;
Pascali-Mi pari a mia cha t’arzasti cu na mala cira stamatina. Porgimu stu panaru cha vajiu all’orto e scippu carcosa;
Bettina –Armenu fai carcosa i utili, cerca però u torni prestu;
Pascali- U tempu u vajiu cha tornu;
Bettina –I tempi toi i canusciu boni, sunnu cchiuttostu longhi;
Pascali-Cui staci intra cunta i pedati i cui camina;
Bettina – Ti raccumandu, o ritornu cangia strata, accussì cummari Teresina non ti spijia chi porti ‘nto panaru. Quantu rendi l’ortu e lu mulino non ‘nciu diri du vicinu;
Pascali -Bonu cha non mi fermu. Occhiu chi non vidi, cori chi non ‘doli;
Bettina -E passa dirittu da casa i Santina;
Pascali-E sicundu tia, mi fermu ‘nta na casa adduvi non ‘ndavi l’ omu?
Bettina – Non sacciu, cui si guardau si sarvau;
Pascali-Amaru eu, chi ‘ncappavi cu na mugghieri comu a ttia. Nesciu , e ‘ntofrattempo ‘ndanci abbentu da lingua, falla u si riposa;
Bettina -E tu penza u ti ricogghi prima i menzujornu;
Pascali– Dicia patrima: cui non si marita u focu attizza e cui sui marita u ‘mpernuabbrazza ;
Bettina -E ‘ndavia ragiuni puru u meu, quandu mi dissi cha non eri lignu pà fari crucifissi;
Pascali- Dassa u mi ‘nda vajiu. A mia sta fimmina mi faci lunchiari u ficatu tutti i jorna. Menu mali cha nescia bucatu si no moria scoppiatu