Scienza, non superstizione. È chiedere troppo?
Ogni giorno, in ogni località del pianeta sono compiute innumerevoli azioni irrazionali. Tra le più diffuse c’è il lancio di monetine nell’acqua. Se ne danno le motivazioni più disparate, se ne sottolinea l’irrazionalità, ma tante persone continuano imperterrite a lanciarle, soprattutto nei pozzi e nelle fontane. In una delle più famose fontane al mondo, quella romana di Trevi, gli spiccioli che si buttano ogni anno ammontano a circa un milione e mezzo di euro: una somma enorme. Gestita da chi raccoglie le monetine in maniera ancora più irrazionale di chi ve le getta.
Fino a vent’anni fa una vera e propria raccolta non era ancora stata nemmeno organizzata. Un ladruncolo, Roberto Cercetta, usava la fontana come un bancomat, e fu soprannominato D’Artagnan. Venne però un sindaco di centrosinistra (quale, tra Rutelli o Veltroni, non sembra possibile saperlo con certezza) e cominciarono a scattare le manette per chi si appropriava del denaro. D’Artagnan morì pluripregiudicato, povero e abbandonato da tutti. Le monetine raccolte finirono invece a chi di poveri se ne intende: la Caritas romana.
Un anno fa, la giunta del cambiamento guidata da Virginia Raggi decise che era giunto il momento di utilizzare il gruzzolo in autonomia. Il 29 marzo, giovedì santo, arrivò un contrordine. Nove mesi dopo la giunta ha partorito un contro-contrordine, deliberando che le monetine sarebbero state destinate al restauro dei monumenti e a fini sociali. Sono passati soltanto pochi giorni, costellati di geremiadi cattoliche, ed è arrivato anche il contro-contro-contrordine. La sindaca si è cosparsa il capo di cenere, si è inginocchiata davanti all’Osservatore romano e ha annunciato urbi et orbi che non solo le monetine raccolte dentro la fontana di Trevi continueranno a finanziare la Caritas, ma la finanzieranno anche quelle gettate nelle altre fontane romane. Una sorta di indennizzo del valore di 200.000 euro all’anno per il fastidio procurato all’episcopato romano. Come ha icasticamente commentato Mario Ajello sul Messaggero, “il Campidoglio dona, automaticamente, senza contrattare”.
Non sapendo come giustificare il contro-contro-contrordine, la sindaca ha dichiarato all’organo ufficiale della Santa Sede che “nessuno ha mai pensato di privare la Caritas di questi fondi”. Un ripiego sulla commedia dell’arte che, pur ricordando Totò, ha tuttavia strappato ben poche risate. E non è nemmeno servito granché: i documenti raccontano una storia diversa. L’ha notato, poco sportivamente, persino il quotidiano dei vescovi Avvenire.
Non dimentichiamo che Avvenire, esattamente come le Caritas, sono agli ordini dei vescovi italiani (quelli che, proprio in questi giorni, stanno accelerando la creazione di un nuovo partito dei cattolici perché il penultimo, quello di Alfano, non se lo ricorda più nessuno). E la Chiesa italiana è la più grande proprietaria immobiliare del paese, destinataria di oltre sei miliardi di euro pubblici ogni anno. Ai quali sembra particolarmente affezionata, anche nell’epoca della “povertà rivoluzionaria” di papa Bergoglio. Sembra altrettanto gelosa della propria privacy: online, di bilanci delle Caritas e delle diocesi, se ne trovano pochini — googlare per credere. La Caritas romana non fa eccezione. Nel suo documento Caritas in cifre 2017 snocciola tutte le belle cose che ha fatto, ma non dice con quali fondi le ha fatte: perché, scrivono, “non è un bilancio sociale”. Ma cosa sia il suo bilancio sociale non pare aver voglia di farcelo sapere.
Sul web si trova però quello di Caritas italiana (che non è un bilancio consolidato comprendente quelli delle Caritas territoriali). È un bilancio che qualche perplessità inevitabilmente la desta. Caritas italiana lascia sul conto corrente più di quanto spende in un intero anno (58,5 milioni contro 52,5) e affitta a prezzi calmierati i propri immobili ai suoi dipendenti e a quelli della Cei. Tra le entrate, oltre ai quasi 300.000 euro ricevuti per il servizio civile da un non meglio precisato “ministero”, compensa in parte il crollo delle offerte (calate da 30 a 12 milioni in un solo anno) con 12,5 milioni ricevuti dalla Cei grazie all’8×1000. Se pensiamo che le Caritas (italiana e diocesane) accedono contemporaneamente anche al 5×1000, se ne deduce che i soldi non bastano mai, alle Caritas. Quindi, piuttosto che aumentare gli affitti, preferiscono bussare a Pantalone.
A forza di bussare spesso ed energicamente, però, la porta sta seriamente rischiando di rompersi. Pantalone, ormai, non offre quasi da nessuna parte un servizio di assistenza sociale degno di questo nome. Le amministrazioni locali lo delegano alle Caritas: ma in questo modo vengono meno trasparenza e controllo. I pentastellati, che fino a poco tempo fa ritenevano una virtù nobilissima la pubblicazione online di ogni pezzulla giustificativa, non si chiedono come e a beneficio di chi sono utilizzati i fondi delle Caritas? Non pensano che anche le Caritas debbano essere sottoposte a monitoraggio? Non si domandano, loro come gli altri partiti, quale impatto deflagrante sulle casse pubbliche hanno le politiche di sussidiarietà, un principio cattolico elevato a norma costituzionale e applicato ormai indiscriminatamente?
Nulla da ridire, ovviamente, su quanto di buono fanno i volontari impegnati nelle Caritas. Il problema non sono loro. Ma l’andazzo è tale da generare un ulteriore effetto negativo, facilmente rilevabile da chiunque: l’aumento della sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche. È inevitabile: si sfiduciano da sole, esternalizzando su soggetti privati attività che si auto-ritengono incapaci di svolgere. Inefficiente o meno che sia, resta il fatto che l’assistenza sociale pubblica non dispone più dei mezzi per svolgere il proprio lavoro. E un’istituzione pubblica che non è in grado di assicurare una zuppa calda a qualunque essere umano che ne ha bisogno è per definizione indegna di essere definita “civile”.
Ma i problemi non finiscono qui: l’Italia è un paese sempre più secolare e plurale. Anche i migranti cattolici sono soltanto uno su cinque, come scrive la stessa Caritas. Perché se ne devono occupare i vescovi? Perché un non-cattolico in difficoltà deve essere costretto a chiedere l’elemosina in parrocchia, una casa di parte, anziché potersi rivolgersi in municipio, che è la casa di tutti?
Purtroppo, le nostre autorità soffrono di un’autentica sudditanza psicologica nei confronti della Chiesa, vista come l’unico orizzonte di senso da dare alla cittadinanza. Sembra essere il destino di un paese dove il buon senso è sempre stata merce rara: in nome dell’iperrealismo politico, qualunque riformista o rivoluzionario di qualunque colore lascia presto nell’armadio qualunque promessa di intaccare i privilegi ecclesiastici. Il governo del cambiamento non è da meno: dai contributi ai cristiani perseguitati (e soltanto ai cristiani, mi raccomando!) alle amnesie sul recupero dei cinque miliardi di arretrato Ici, sta ripercorrendo l’indecorosa strada già solcata da Mussolini, Togliatti, Craxi e Rutelli. Giusto per limitarci ai cognomi più noti all’interno di un elenco sterminato.
Sono passati meno di quattro anni da quando Virginia Raggi denunciava i costi della Chiesa a carico del Comune di Roma: almeno 440 milioni ogni anno. Una volta conquistato il potere, però, non solo non li ha sforbiciati, ma li ha aumentati di 200.000 euro. Chissà, forse ha fatto tesoro delle vicissitudini del suo predecessore, Ignazio Marino: il primo ottobre 2015 aveva osato “bacchettare” il papa, il primo novembre già non era più sindaco, abbandonato dal suo stesso partito. Certo, sono le miserie della politica politicante. Che fanno però pensare che per ottenere un cambiamento nella direzione laica ci sarà sufficiente far capire ai politici, il cui unico interesse sembra essere la poltrona, che è politicamente più utile essere laici. La maggioranza della popolazione, laica lo è già. Se l’han capito i cittadini, possono capirlo anche gli eletti.
Nel frattempo, l’efficientissimo sistema assistenziale cattolico-romano si trova alle prese con un’autentica strage di senzatetto: già dieci morti dall’inizio dell’inverno. Secondo la Croce Rossa, “siamo ormai in una situazione di vera emergenza, che si ripete ciclicamente ogni anno”. E a Roma non fa mai particolarmente freddo. Nemmeno nella schiena di chi vive nei palazzi del potere.
Raffaele Carcano – UAAR