Il soldo è l’avvenire
Ero nel pieno dei miei forse quando ti dissi di essere sostanzialmente insolvente. La solvibilità si tagliava con il coltello, come capita con le nebbie più fitte. I fatti stavano avendo la meglio sui progetti. I patti erano saltati, tutti contemporaneamente fuori sincrono. L’asindeto ci smarca dai legami. L’asintoto tende ancora allo zero. Il punto di quella congiunzione che non va pronunciata si sporge verso un panorama aberrante di quotidianità parimenti distanti dallo star bene. Cosa poi possa significare “star bene” è il punto di svolta che meriteremmo di affrontare se solo ci rimanesse tempo da dedicargli. E se il tempo fosse davvero denaro, del cucuzzaro potremmo pure fottercene invece di puntarlo con gli occhi languidi dei pezzenti in cui ci stiamo trasformando.
Frego il comando e il codone con un diversivo che mi permette di accaparrarmi le simpatie degli sprovveduti. L’accaduto è accaduto nella disgrazia dell’incomunicabilità che mette alle corde quella parte larga di popolo che crede ancora di essere sovrano. Gli altri, i “padroni di se stessi”, saltano quella corda e saltano quella corda e saltano quella corda. Mi metto in casa un ordigno inesploso come monito. A conti fatti ognuno di noi è una bomba. Sulla tomba del secolo scorso ci sono foto di sconosciuti nei quali riconoscersi è l’unica possibilità di farla franca. La fase di stanca dei mercati non esiste: i mercati fagocitano costantemente vite imbrigliate nella vita che pagano a caro prezzo. Lo fanno senza interesse anagrafico. Seguono la procedura. Braccano da vicino i numeri nella ressa dei conti che centellina il sangue da risucchiare per la soddisfazione dei vampiri che, mai come oggi, banchettano aguzzini passando le loro lingue su canini abituati fin troppo bene. I dividenti si moltiplicano. Aggiungo alla relazione di fine anno che i rapporti di minoranza sono quelli che ci hanno fatto forti. L’idea di farli fuori me la porto ancora dentro. Sventro papere di gomma nella vasca in cui mi lavo una volta alla settimana. L’epicentro del terremoto finanziario che ha scosso gli umori dei concittadini del mondo è nel tuo cervello. È nel mio cervello. Stendo il cappello delle offerte per far credere alla mia calvizie che andrà tutto bene. Inizio a crederci anch’io e le sevizie mi appaiono sempre più sopportabili. Mi arruolo nell’esercito della saggezza mentendo sui moduli per l’iscrizione. L’ammissione non è concessa a quelli che come me non hanno potere di offerta ma si limitano alla costanza della domanda. “Ma cu ti manda?”, mi disse uno in fila, a qualche metro da me che ero a qualche chilometro dalla porta di accesso al tempio. Nel tempio, un puparo provava con solerzia le movenze più adatte. La sceneggiatura, in costante aggiornamento, lasciava spazio ai menzogneri e ai sognatori. Li scambiava di ruolo senza che nessuno ne notasse le differenze. L’arte dell’arrabbiarsi era stata declassata a indignazione, concessa a tutti i burattini della messa in scena. Che pena mi sono fatto, ritratto a comparsa nel quadro più ampio di una società che aveva bisogno di me perché avevo bisogno di te perché avevi bisogno di loro. L’uragano della retorica ci avrebbe spazzato via senza distinzioni. Scaviamo il solco dell’avvenire come trincea entro la quale proteggerci. Siamo i valori aggiunti di qualcosa che non ci apparterrà fin quando il fronte resistente Edward non ci avrà spiegato come recidere i fili per trasformarci da marionette a barzellette; da barzellette ad etichette; da etichette a vendette. Maledette siano le chiacchiere degli scacchieri e le loro mosse prestabilite. Maledetti siano i modi del clamore e i chiodi che commutano i carnefici in vittime.
L’ultima ottima annata è andata in archivio tra la trivialità dei sorrisi mascherati e il buon cuore dei benefattori che preferiscono rimanere anonimi. Sotto gli pseudonimi contrariati dall’elargizione di grano alla plebe, si nascondono le malefatte che hai pensato ma non sei riuscito ad attuare. Tu no. L’attualità ti ha schiacciato. Il passato è passato. I programmi andranno tutti in onda e senza telecomando la vedo dura. La cura è la cattura. La cura fa paura. La misura della bara è larga quanto le mie spalle e alta quanto me, senza la testa. Che la festa continui, dipende da quanto continueremo a ragionarci e da quando decideremo di prendere provvedimenti. Ho sempre quell’ordigno inesploso nel salotto di casa. In caso fosse chiuso, le chiavi le trovi sotto lo zerbino.