Giona

Giona

Sono tanti anni che dormo solo poche ore a notte. In quelle poche ore, riesco a sbavare buona parte del cuscino. Che poi non è manco colpa mia: è il mostro che tengo dentro quel corpo morto a scuotere dall’interno i fluidi di un mare in cui lui è un fottuto Giona ed io la sua fottuta Balena. E se anche mi arenassi, la sua fame non si placherebbe. E se anche io lo amassi, la sua fame non si placherebbe. Dei miei colpi di coda non sa cosa farsene, se non provare a distrarli per indirizzarmi altrove, dove piacerebbe a lui.

Ci incontriamo solo un giorno al mese, il patto è guardaci faccia a faccia il giorno della paga che è merito mio ed è merito suo. Allora prendo da bere io, e prende da bere anche lui e ci beviamo la mia e ci beviamo anche la sua. Non ci parliamo dal 1981 ma ci provochiamo e per dispetto alziamo l’asticella dopo il turno di stacco dell’altro Fosbury. Grezze risate per grazie e fallimenti che valgono pur sempre come orientamento. Del cambiamento che ci si ripropone ciclicamente ci sono i segni indelebili. L’abilità sta nel farne vanto, nel farne canto, nel farne tanto. Quanto possa durare non lo sappiamo nessuno dei due, nemmeno ci interessa.

A dirla tutta, non è mai stato quello il centro della questione. Fin quando non la smetteremo di volerci sorprendere sarà questo il nostro punto di forza.

Francesco Villari è morto, lunga vita a Francesco Villari. Sono corto di cerimonie in questi casi, perché le cerimonie mi sanno di atto conclusivo e le allusioni alle conclusioni servono solo a distrarmi mentre nella tempesta cerco di tenere la barra dritta. Una fitta al costato, è lui. È risentito a causa della mia propensione allo sfottere il suo atteggiamento libertino. Riesco ancora a sbavare il cuscino. Al risveglio di un giorno di qualche mese fa mi accorsi di aver sbavato fino a terra. Giusto qualche goccia, chissà che cazzo avrà combinato. La concatenazione degli eventi è figlia delle attenzioni che riponiamo all’evolversi degli eventi. Non mi sono mai pentito di averci pensato troppo. Il giorno dopo ho iniziato a tracciare per terra un solco partendo dal punto in cui ho ripulito quelle gocce. Dopo la prima settimana il tracciato aveva già aperto una breccia tra la porta della stanza da letto e il corridoio che porta allo studio, poi al bagno, poi alla cucina, poi alla porta d’ingresso. Ho scommesso le mie palle in questa sfida. La storia del suicidio assistito abbraccia la politica del libero arbitrio solo in alcune fortunate occasioni in cui alcune fortunate menti smettono di dirsi bugie. Le mie invenzioni non le ho mai brevettate e accetto di buon grado che siano perlopiù impraticabili. Non è nemmeno questo il centro del discorso. Mi discosto e scavo. Sto nascosto e scavo, schivo e schiavo dei suoi umori. Amai, ma sul più bello deposi le armi. Non farmi la paternale ché ho già rotto gli indugi con le maniacali persecuzioni corporali e spirituali. Nell’espiazione di cui mi sono fatto carico, ho ingrassato Giona fino quasi a non riconoscerlo più, il ciccione. Da qualche giorno è affannato. Io sbavo sempre di più e sempre più allungo il percorso che ora conduce all’androne del palazzo che mi ospita. Mastico in continuazione il laccio del cappuccio della mia felpa, alimento la salivazione. Sputo con frequenza regolare. Nessuno mi regala niente. Sua Eccellenza mi impone la febbre. Potrebbe essere la mia grande occasione, accentuo i colpi di tosse. Giona si sente chiamato in causa, mi propone in serie incubi in cui io sono Caino e lui il fratello martire. Sudo ma godo. Andiamo avanti così per tre giorni, sbavo e mi svuoto di ogni goccia di ogni liquido in corpo. Un colpo di coda e poi ancora uno. Adesso li sente. Nel dormiveglia febbrile avverto un tonfo: è Giona, è in trappola. Lo sento urlare in ultrasuoni, non ha mai imparato a nuotare. Si dimena tra le maglie della rete capillare che ho scavato. Tossisco e bevo d’un sorso un litro d’acqua, mi ricompongo e lacrimo. Corridoio, studio, bagno, cucina, porta d’ingresso, scale, androne, portone, marciapiede. Si tuffa suo malgrado dentro i canali di scolo di una città che non ha mai avuto orecchie per intendere. Come nell’Apocalisse di Giovanni, appare in cielo una donna rivestita di sole e sotto i suoi piedi la luna. Buona fortuna! Un temporale improvviso allaga la città, affoga la donna, abbaia al Comandante abbagliato dai fulmini che nella tempesta rinnovano la necessità di tenere la barra sempre dritta e un piano B decorosamente percorribile. L’impero dello scibile è inviso e inafferrabile. Francesco Villari è morto, lunga vita a Francesco Villari.

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