Il sabotatore del villaggio
“Ogni stronzo di cui non te ne frega un cazzo sta combattendo una guerra di cui sei in qualche modo causa: sfottilo”. Ho imparato a leggere quando ancora parlavo a stento. Da quando ho imparato a leggere non ho più potuto farne a meno. Più non capivo, più mi intestardivo sul perché non capissi. L’ho sempre vissuta bene questa testardaggine. L’indagine come possibilità di conoscersi mi intrigava più della possibilità di avere ragione. Cosa te ne fai della ragione quando hai torto? Non tengo più il conto dei miei conti in sospeso con il vocabolario sul quale ho spuntato tutte le parole che penso di aver acquisito come concetto. Poi la fase della costruzione della frase si espose al rischio dell’impresa del capirsi. E qui cascano tutti. Perché, in fondo, il demone della ragione non si fa grossi problemi quando c’è da chiudersi a riccio e pungere chiunque osi avvicinarsi. L’avvicendarsi delle giornate si arricchisce della nostra presenza a prescindere dall’incidenza dei nostri comportamenti. Questa parte analitica ci costringe ad uno sdoppiamento, siamo a un bivio non sempre bene accetto. Siamo due facce della stessa accozzaglia che meritano il riconoscimento di un profilo alto. Siamo Giano, che di fronte alla divina consapevolezza di guardare il passato e il futuro cammina le strade del presente con la costante minaccia di inciampare su ciottoli che in passato non erano stati costruiti e che in futuro saranno cementati per la realizzazione del grande parcheggio del centro commerciale dentro il quale poterci distrarre senza il rischio di inciampare.
Il solco tracciato diventa trincea. Il bifolco in doppio petto diventa panacea. Dulcinea può continuare a non esistere per come la immagini: l’importante è immaginarla. Spezzo una lancia in favore di chi è in grado di farlo. E se il resto manca, offriremo caramelle a chi maledice la stanchezza di dovere ripetere le cose per la poca attenzione del suo interlocutore. Il segreto è pensare che l’interlocutore cambi, che quello di prima non ha capito ma con questo ce la farai. E se non ce la farai con questo, con il prossimo hai un margine di approssimazione maggiore. Nel pantano della codifica imposta dai criteri di comunicazione puoi sguazzarci, se ti va. Nel dramma post apocalittico dell’alfabetizzazione puoi incatenarti per farti sentire ma non puoi dimenticare i motivi per i quali ti sei incatenato fin quando la miccia accesa non farà scoppiare la bomba.
Che si fottano pure le diottrie se il sistema metrico decimale dovesse dichiarale decimate. Non ho paura di non vedere più se riuscirò a sentire. Non ho paura di non sentire più se riuscirò a percepire il brivido. Il sensazionalismo delle sensazioni mi induce a pensare che le sensazioni siano andate perdute nel tempo e che l’istinto sia in ostaggio di aguzzini senza faccia, senza denti, senza orecchie, senza occhi, senza cervello: a loro non interessa il perché lo stiano facendo, a loro interessa farlo.
“Ogni stronzo di cui non te ne frega un cazzo sta combattendo una guerra di cui non sei la in qualche modo causa: sfottilo”.
Il viaggio si ripete. I cessi degli autogrill sono le pergamene dei profeti del traffico su gomma. Non si cancella dai nostri ricordi nessuna di quelle parabole che hanno accompagnato l’istinto del sorriso di ogni festa della liberazione.
Azione. Reazione. Lallazione.
Nasci. Fraintendi. Muori.
In alto i nostri cuori. Sono rivolti a un signore che un cuore non ce l’ha.
In sul calar del sole, s’infiammano i portenti. L’ardore e l’ardire della festa che viene s’impongono sulle facezie. Odo il martel picchiare, odo la sega: il lavoro nobilita le eccellenze. Ciascuno in suo pensier farà ritorno tra orde di distacco. La fame del sapere è come un giorno d’allegrezza pieno.