Sapete quanto vi costa la chiesa? Ecco i dettagli
Notizia tratta da: icostidellachiesa
Perché i “Costi della Chiesa”
L’UAAR parte dall’assunto che le religioni (tutte) dovrebbero essere sostenute da chi le professa. Ciò non accade, quantomeno in Italia, grazie a un numero considerevole di leggi e normative emanate in favore delle comunità di fede. Nessuno è al corrente dell’entità dei fondi pubblici e delle esenzioni di cui, annualmente, beneficia la religione che ne gode incomparabilmente più delle altre, la Chiesa cattolica nelle sue articolazioni (Santa Sede, Cei, ordini e movimenti religiosi, associazionismo, eccetera). Non la rendono nota né la Conferenza Episcopale Italiana, né lo Stato.
È per questo motivo che l’UAAR ha deciso di dar vita alla piattaforma I costi della Chiesa: l’obiettivo è di presentare una stima di massima che sia la più attendibile e accurata possibile, citando estesamente le fonti e utilizzando metodologie trasparenti.
Quantificare i costi
Il compito non è per nulla facile, perché la cifra reale e precisa è quasi sicuramente ignota sia allo Stato, sia alla Chiesa. Occorrerebbe infatti esaminare, delibera per delibera, capitolo di spesa per capitolo di spesa, il bilancio dello Stato e quelli di tutte le Regioni, le Province, i Comuni, gli enti pubblici, le società a partecipazione pubblica. Occorrerebbe inoltre disporre di tutti i bilanci delle diocesi, delle parrocchie, degli enti ecclesiastici, delle associazioni cattoliche. Un’impresa impossibile per chiunque.
Anche per l’UAAR, ovviamente. Anche perché non dispone certo di somme ragguardevoli da investire nell’inchiesta. Ciononostante, abbiamo ritenuto che fosse possibile, con ragionevole approssimazione, cercare di quantificare la cifra.
Precedenti tentativi
Altri ci hanno provato passato: Piergiorgio Odifreddi (Perché non possiamo essere cristiani, 2007) l’ha stimata in 9 miliardi di euro l’anno, Curzio Maltese (La questua, 2008) in 4,5 miliardi, l’Ares (La casta dei casti, 2008) in 20 miliardi. Da parte sua, il mondo cattolico fa quasi sempre riferimento alla replica al libro di Maltese, intitolata La vera questua, scritta dal giornalista di Avvenire Umberto Folena, la quale non contiene però alcun totale.
L’obiettivo dell’UAAR
A differenza dei precedenti sforzi, I costi della Chiesa rappresenta il tentativo da parte dell’UAAR di raggiungere lo stesso obiettivo in modo approfondito, attendibile e dinamico. Perché di ogni singola voce presa in considerazione spieghiamo l’origine normativa, quali sono i dati a nostra disposizione e quali sono state le valutazioni che ci hanno spinto ad attribuire loro un certo valore. Tutto questo, essendo pubblicato su internet, è a disposizione di chiunque, anche della stessa Conferenza Episcopale, voglia integrare i dati, criticarli o commentarli.
I costi della Chiesa costituisce anzi uno stimolo per tutti a effettuare le proprie valutazioni e, di conseguenza, a disporre nel tempo di una piattaforma, e delle stime che contiene, sempre più affinate. Se poi la Chiesa e/o lo Stato presenteranno i propri conteggi saremo ancora più contenti: vorrà dire che l’iniziativa avviata dall’UAAR ha raggiunto il suo scopo, quello di discutere e confrontarsi sui costi pubblici della Chiesa cattolica.
Ricordiamo che il bilancio dell’UAAR è pubblicato online.
Insegnamento della religione cattolica nelle scuole
Curzio Maltese, ne La Questua, ha stimato il costo degli insegnanti di religione cattolica in circa un miliardo di euro. La Corte dei Conti, nella relazione 2012 sui costi del lavoro pubblico, ha calcolato in 13.675 i docenti di religione a tempo indeterminato in ruolo a fine 2010, con una spesa di 466,1 milioni di euro. Assumendo che il numero di questi docenti sia distribuito proporzionalmente nei 4 cicli d’istruzione (370.711 classi, secondo la sintesi dei dati pubblicata dal Miur) si ottiene che le ore di insegnamento sarebbero 287.143, e di conseguenza il costo medio settimanale risulta 1.623 euro.
Proiettandolo sulle 548.808 ore totali richieste in base al numero delle classi, coperte da personale a tempo determinato, si arriva a una proiezione di circa 870 milioni, che aumentato del 15% (per la crescita degli stipendi a partire dal 2010 e per effetto degli scatti maturati biennalmente dai precari, un privilegio esclusivo dei precari che insegnano religione cattolica) dà un totale di circa un miliardo, in linea con le stime di Maltese. La retribuzione dei docenti di Irc è infatti più alta degli insegnanti normali, e la questione è stata oggetto di un’inchiesta dell’Unione Europea, sollecitata dal deputato radicale Maurizio Turco (cfr. Ultimissima dell’8 ottobre 2008). La cosiddetta riforma della “buona scuola” ha a sua volta assegnato anche ai docenti di Irc il voucher di 500 euro.
Esistono inoltre convenzioni sottoscritte dalle amministrazioni comunali e inerenti gli insegnanti di religione nelle scuole d’infanzia comunali: per esempio, quella del Comune di Verona riguarda sei docenti presso le scuole d’infanzia comunali per un impegno di spesa di circa 137 mila euro l’anno. Tenendo anche presente i costi amministrativi e gestionali supplementari che gravano sulle scuole in seguito alla necessità di assicurare questa docenza supplementare, nonché il costo dei libri di testo che, specialmente per quanto riguarda la scuola primaria, grava normalmente su fondi pubblici, si ritiene lecito stimare i costi complessivi dell’insegnamento della religione cattolica in almeno 1,25 miliardi di euro.
Esenzioni IMU (Ici, Tares, Tasi)
L’Imu (Imposta Municipale Propria) dal 2012 ha preso il posto dell’Ici, che era stata a sua volta istituita con il Dlgs n. 504/1992. L’articolo 7 ne disciplinava le esenzioni.
Con la sentenza n. 4645 dell’8 marzo 2004 la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sull’uso quale casa di cura e pensionato di alcuni immobili di proprietà dell’Istituto Religioso del Sacro Cuore, ribadì autorevolmente che, trattandosi di attività «oggettivamente commerciali», gli immobili oggetto del contenzioso non potevano rientrare nell’ambito dell’esenzione. Nel quadro del Decreto Fiscale collegato alla Legge Finanziaria 2006, il parlamento decise di andare contro la sentenza della Cassazione ed estese l’esenzione Ici anche agli immobili di proprietà ecclesiastica adibiti a scopi commerciali. Il decreto legge n. 223/2006 successivamente eliminò l’esenzione totale, stabilendo che la stessa «si intende applicabile alle attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale»: in pratica, era sufficiente che all’interno dell’immobile destinato ad attività commerciale si mantenesse anche solo una piccola struttura destinata ad attività religiose per garantire l’esenzione dall’Ici all’intero edificio. Una decisione che non piacque alla Commissione Europea la quale, in seguito a una denuncia dei radicali, aprì un’inchiesta contro il governo italiano per sospetti «aiuti di Stato» alla Chiesa e violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza, inchiesta terminata nel 2016 con un nulla di fatto, facendo risparmiare alla Chiesa cattolica tra i 4 e i 5 miliardi di euro.
Secondo le stime dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, diffuse nel settembre 2005, il provvedimento relativo alla finanziaria 2006 avrebbe comportato un ammanco nelle casse comunali di circa 200-300 milioni di euro, 20-25 soltanto a Roma (25,5 secondo lo stesso Comune di Roma, scriveva L’Espresso dell’8 settembre 2011). Maltese, a p. 62, scrive che alla stima Anci vanno aggiunti «gli immobili considerati unilateralmente esenti da sempre e mai dichiarati ai Comuni, per giungere a un mancato gettito complessivo valutato per difetto intorno a 1 miliardo di euro l’anno». Folena, a p. 42, replica così all’articolo di Maltese pubblicato su Repubblica che ha costituito l’origine di questo passaggio ne La questua: «Unilateralmente? Assurdo: sarebbe come se ciascuno di noi, persona fisica, decidesse di ritenersi “unilateralmente esente” dall’Irpef e così non pagasse le tasse. Tanto assurdo che questo passaggio nel libro scompare». Non è vero, come si può notare. E ovviamente era possibile evadere totalmente l’Ici, perché era sufficiente non aver cominciato a pagarla a suo tempo sulla base della legge del 1992, cambiare l’uso dell’edificio in senso commerciale, e non comunicare tale modifica.
La legge, scrivevano i giuristi, non rendeva del resto facile stabilire quali condizioni debbano ricorrere affinché un edificio di culto non debba più essere considerato tale. A p. 41 Folena sostiene che «gli alberghi pagano, e se ciò non avviene, li si induca senza remissione a pagare: senza alcuna incertezza», confermando quindi che non esiste alcun controllo ecclesiastico ‘superiore’ che verifichi la correttezza tributaria dei vari enti ecclesiastici proprietari di edifici in cui si pratica l’attività alberghiera. Lo stesso Folena, a p. 48, scrive del resto che «quella delle “celebri” Orsoline [menzionate da Maltese a mo’ di esempio di attività alberghiera esente] è in realtà una scuola. D’estate vengono messe a disposizione le stanze delle studentesse: 80 euro pensione completa in alta stagione, sconti per famiglie, i bambini pagano la metà». Ma 80 euro sono, per l’appunto, una tariffa di mercato, anzi: condizioni più care di quanto praticato sul mercato da non professionisti. E la stessa scuola probabilmente applica, nel resto dell’anno, condizioni di mercato. Una ‘Casa del clero’ che offre stanze a persone comuni è stata inoltre individuata dal segretario radicale Mario Staderini insieme a tre pensionati per studenti (cfr. sito de L’Espresso): esiti simili per un servizio di Striscia la notizia.
Sul Fatto Quotidiano del 20 agosto 2011, che si sofferma in particolare sulla tassazione degli alberghi, è peraltro riportato questo passaggio: «A pagare, secondo l’Associazione nazionale dei comuni italiani, sono meno del 10 per cento di chi dovrebbe farlo, con un danno erariale di circa 500 milioni l’anno». Come lo stesso Folena ricorda (p. 42) i rapporti tra vescovi e i vertici dell’Anci sono cordiali, tanto che il segretario generale dell’associazione Angelo Rughetti ha invitato gli amministratori locali a partecipare al Congresso Eucaristico (cfr. Ultimissima dell’11 agosto 2011). Ed è del resto noto che, pur se la Cassazione è di diverso avviso (cfr. sentenza n. 17399/2011), nei rari casi in cui il mancato pagamento dell’Ici da parte di un ente religioso veniva esaminato da una commissione tributaria, l’ente tendeva a giustificare le proprie ragioni con semplici autocertificazioni e l’esito gli era generalmente favorevole: si veda il caso di una casa per ferie “scagionata” perché l’immobile «era al servizio di una comunità religiosa per attività ricettiva-assistenziale, senza fini di lucro, che veniva svolta con lo spirito apostolico proprio della Congregazione» (cfr. il sito del Sole 24 Ore). L’“assoluzione” da parte delle commissioni tributarie richiederebbe del resto un ulteriore intervento in Cassazione, che non sempre ha luogo (cfr. Ultimissima del 10 novembre 2011).
E, ancora, sebbene la locazione di un appartamento sia sempre stata gravata da ICI, sono invece esenti le canoniche e le abitazioni di residenza dei vescovi (cfr. Cassazione n. 6316/2005), così come quelle dei parroci, e persino quelle dei sagrestani. Infine, si ricorda che secondo stime non smentite effettuate dal Gruppo RE (che sostiene di operare sul mercato immobiliare «adottando canoni di comportamento deontologico rispettosi dell’Etica, interpretata secondo la Morale Cattolica»), pubblicate sul settimanale Il Mondo nel maggio 2007, il patrimonio immobiliare di proprietà della Chiesa e delle sue varie articolazioni rappresenta tra il 22 e il 25% del valore dell’intero patrimonio immobiliare italiano. Quantomeno 115.000 immobili, ha reso noto il quotidiano conservatore Il Tempo, di cui 25.000 nella sola Roma.
In attesa dell’intervento del governo, nel febbraio 2012 l’Anci diffuse una nuova stima, definita «prudenziale», che valutava tra i 500 e i 600 milioni l’entità dell’esenzione Ici-Imu. Va anche ricordato che le modifiche concordatarie del 1984, all’articolo 19, stabiliscono che «agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tale scopo, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime»: pertanto, con l’introduzione e la generalizzazione delle esenzioni Ici-Imu, come ha notato per primo il prof. Piero Bellini dell’università La Sapienza di Roma, si è in presenza di «una modifica del Concordato da parte dello Stato, peraltro in favore della Chiesa, che avviene nelle forme non previste dallo stesso Concordato. Il quale, essendo “protetto” dalla Costituzione, non può essere modificato se non nelle forme previste dalla Costituzione stessa, cioè attraverso un accordo tra le parti». Un capitolo ancora a parte è quello delle chiese – non soggette a tassazione – dove tuttavia si fa pagare un biglietto d’ingresso in considerazione del valore artistico delle stesse: perché non dovrebbero essere colpite da imposta?
L’introduzione dell’Imu, nel 2012, non è stata immediatamente estesa alle proprietà ecclesiastiche: il governo Monti ha infatti preso tempo per stabilire le linee guida, e il Consiglio di Stato ha persino rispedito al mittente la prima bozza elaborata dall’esecutivo. In seguito è stato elaborato un nuovo regolamento che contiene luci e ombre, tanto da far parlare di «mini Imu» o addirittura di «bluff», visto che la nuova normativa si presta a mille interpretazioni: a partire dall’assunto che per modalità non commerciale va intesa quella che manca del fine di lucro e stabilendo, caso per caso, quando si ritiene che manchi il fine di lucro (la corresponsione di una retta simbolica, la non redistribuzione di eventuali utili, il regime in convezione con lo Stato) sulla base dell’esame dello statuto dell’ente, che poteva comunque essere adeguato entro il 31 dicembre 2012 per rispondere ai requisiti richiesti. Nel dicembre 2016 la Corte di Cassazione ha stabilito che, se gli enti religiosi godono di una tassazione agevolata, allora devono anche applicare rette «significativamente ridotte».
Nel dicembre 2012 la Commissione Europea dava il via libera al regolamento Imu, rilevando nel contempo come la precedente normativa fosse illegittima: nello stesso tempo l’ha tuttavia “condonata”, ritenendo «oggettivamente impossibile», sulla sola base delle dichiarazioni del governo italiano, stabilire quanta parte degli immobili era da considerarsi commerciale e quindi non coperta dall’esenzione Ici. Il danno complessivo per le casse pubbliche nel periodo 2006-2012 è stato stimato tra i due e i tre miliardi di euro. Per fortuna la questione è ancora aperta: stando all’avvocato generale della Corte Europea, Melchior Wathelet, la Chiesa è tenuta a pagare quanto “evaso”.
Nel frattempo, come ha notato anche il periodico cattolico Adista, parlando di “imbroglio”, le nuove regole sono lungi dall’introitare, come previsto, le centinaia di milioni annui che la normativa precedente consentiva di non pagare. Non avendo nemmeno alcun riscontro di un’entrata in vigore delle nuove regole e di un’applicazione delle stesse, mentre si continua ad aver notizia di organizzazioni cattoliche soccombenti nei ricorsi per Ici non pagata negli anni precedenti, nel settembre 2013 l’Uaar ha scritto al Vice-Presidente della Commissione Europea, Joaquin Almunia, e alla Rappresentanza della Commissione europea in Italia, per denunciare come “i governi succedutisi nel nostro paese non intendono dunque in alcun modo intervenire sul trattamento di favore fiscale assicurato ai beni di proprietà della Chiesa cattolica”. Un decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, emanato il 26 giugno 2014, ha infine introdotto per scuole paritarie e cliniche private un regime agevolato, esentandole di fatto dal pagamento dell’Imu e della Tasi. Il Ministero ha infatti stabilito che sono esenti dal pagamento le scuole paritarie che esigono una retta media per studente inferiore al costo medio per studente della scuola pubblica e le strutture ospedaliere private purché convenzionate. Nel novembre 2014, la Corte di Giustizia del Lussemburgo ha però riaperto la questione, ammettendo un ricorso radicale contro le decisioni della Commissione Europea: nel 2018 è arrivata la sentenza, che ha in sostanza “sdoganato” la nuova normativa, stabilendo però che le strutture ecclesiastiche devono pagare l’arretrato, stimato in circa cinque miliardi. Il “governo del cambiamento” guidato da Giuseppe Conte non sembra però intenzionato a recuperare tale enorme somma.
Nel frattempo, nel luglio 2015 la Corte di Cassazione ha dato ragione al Comune di Livorno, che aveva presentato ricorso contro il mancato pagamento delle tasse sugli immobili da parte di due scuole gestite da enti religiosi (concetto ribadito con un’ulteriore ordinanza favorevole al Comune di Orvieto contro un istituto religioso e, nel 2017, al Comune di Cagliari contro un altro istituto religioso). Mostrando così platealmente quanto estesa sia l’area di evasione. A Roma, ha scritto il Corriere della Sera, un albergo su quattro è di proprietà ecclesiastica, ma solo il 40% vi paga le relative tasse: non solo quelle sulla proprietà e i rifiuti, ma persino quelle di soggiorno. Tutto questo nonostante gli elevati prezzi praticati, come confermato da testate politicamente agli antipodi quali Left e Il Tempo. L’arretrato per tali beni, secondo l’Agenzia delle Entrate, nella capitale ammonta a diciannove milioni di euro. Il fenomeno è talmente diffuso da aver dato lo spunto per il soggetto di una commedia cinematografica, Io c’è.
Riteniamo pertanto legittimo, in attesa di un’effettiva applicazione di imposte sui beni ecclesiastici a destinazione parzialmente commerciale o, più probabilmente, dell’avvio di una nuova fase di contenzioso tra amministrazioni locali ed enti ecclesiastici, continuare a stimare l’area di imposizione in almeno 600 milioni di euro di mancati introiti per le casse pubbliche.
Dal 2014 è inoltre entrata in vigore la Tasi, che affianca a sua volta l’Imu. A essa è stata accorpata la tassa sui rifiuti (Tari), e l’esenzione che era a discrezione dei comuni è diventata quindi legge nazionale, il cui beneficio aggiuntivo è stimabile in almeno venti milioni.
Otto per mille
Con le modifiche concordatarie del 1984, Stato italiano e Santa Sede decisero che il pagamento degli stipendi ai sacerdoti cattolici sarebbe stato sostituito con un nuovo meccanismo, introdotto poi con l’articolo 47 della legge n. 222/1985, che a sua volta estese il sistema alle altre confessioni religiose sottoscrittrici di intese con lo Stato (oggi valdesi, ebrei, luterani, avventisti, pentecostali, battisti, buddhisti, induisti, Chiesa apostolica, Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia, Soka Gakkai). Entrato in vigore nel 1990, il sistema destina alla Chiesa cattolica, alle altre confessioni religiose e allo stesso Stato l’8 per mille del gettito Irpef, calcolato in base alle scelte (sia espresse che non espresse) compiute dai contribuenti in occasione della dichiarazione dei redditi.
Il sito del Ministero delle finanze pubblica le ripartizioni del gettito derivante dell’Otto per mille dell’IRPEF. Nel 2019, facendo riferimento ai redditi 2015, l’assegnazione alla Chiesa cattolica è stata di 1.131.196.216 euro, di cui circa il 60% proveniente da scelte non espresse. I contribuenti che hanno espressamente scelto la Chiesa cattolica sono infatti stati il 34,46%, ma la quota attribuita è stata l’80,73% dell’intero ammontare di 1.401.255.936 euro.
Sul sito 8xmille.it, creato dalla Chiesa cattolica, è disponibile il rendiconto sintetico dell’utilizzo che ne ha fatto la Chiesa: 350 milioni per gli stipendi dei sacerdoti, 156 milioni per il culto e la pastorale nelle diocesi, 150 milioni per le Caritas diocesane, 85 milioni per gli interventi caritativi nel Terzo mondo, 70 milioni per il restauro dei beni culturali ecclesiastici, 43,07 milioni per la catechesi e l’educazione cristiana, 40 milioni alla costruzione di nuove chiese, 40 milioni per gli interventi caritativi di rilievo nazionale, 39 milioni per gli interventi di rilievo nazionale per il culto e la pastorale, 13 milioni per le cause matrimoniali gestite dai tribunali ecclesiastici regionali. Va inoltre ricordato che quella cattolica è l’unica confessione a ricevere un acconto sull’Otto per mille dell’anno successivo.
La Corte dei Conti è intervenuta per ben quattro volte, nel 2014, 2015, 2016 e 2018, con relazioni critiche sul funzionamento del meccanismo dell’Otto per mille, evidenziando pesanti rilievi quali: “la problematica delle scelte non espresse e la scarsa pubblicizzazione del meccanismo di attribuzione delle quote; l’entità dei fondi a disposizione delle confessioni religiose; la poca pubblicizzazione delle risorse erogate alle stesse; la rilevante decurtazione della quota statale”.
Contributi delle amministrazioni locali alle scuole cattoliche
Ai contributi statali alle scuole cattoliche si aggiungono anche i contributi erogati dalle amministrazioni locali. È difficile ricostruire il quadro complessivo perché tali contributi sono devoluti a ogni livello: regionale, provinciale, comunale, senza escludere il circoscrizionale. Non esiste alcun quadro complessivo, e realizzarlo sarebbe probabilmente impossibile: per questo motivo elenchiamo a mo’ di esempio alcune realtà che hanno sostenuto la scuola paritaria.
Il Veneto ha erogato 14,5 milioni di euro (cfr. Ultimissima del 5 agosto 2011). La Lombardia 50 milioni attraverso i soli buoni scuola, a cui si aggiungono le integrazioni al reddito e altri contributi a fondo perso (talvolta, come a Crema, letteralmente buttati). La legge ligure n. 14/2002 stanziò 774.685 euro a sostegno delle famiglie, alla quale si è aggiunta la legge n. 15/2006 sul diritto allo studio, mentre la Regione Toscana eroga annualmente circa 1,5 milioni, quella siciliana circa diciassette, il Lazio intorno ai cinque, una piccola regione come la Basilicata quasi tre milioni (tra finanziamenti diretti e quelli ai progetti delle scuole paritarie). Lo stanziamento di diverse decine di milioni di euro è inoltre previsto dal Piano triennale di interventi in materia di istruzione, diritto allo studio e libera scelta educativa della Regione Piemonte.
La Provincia autonoma di Trento ha stanziato nel 2009 11,7 milioni (cfr. Ultimissima del 28 febbraio), quella di Parma oltre un milione: la Provincia di Bergamo si limita invece a 387 mila euro, quella di Carbonia-Iglesias a 196.000.
A livello comunale, Verona destina 2,37 milioni alle sole scuole cattoliche, Bologna oltre un milione, Lodi 390.000, ma anche i comuni più piccoli stanziano cifre significative: Carugate (MI) 175.000 euro, Silea (CS) 102.000, Quarto d’Altino (VE) 31.000. Da notare che nei comuni più piccoli è particolarmente diffusa l’abitudine di ripianare i debiti delle scuole d’infanzia parrocchiali.
Vanno infine aggiunti i fondi per l’acquisto di libri di testo destinati alle famiglie meno abbienti, i contributi destinati alle borse di studio per studenti meritevoli (i provvedimenti non discriminano tra statale e privato), e quelli alle infrastrutture: la sola Regione Lombardia ha destinato, nel 2010, quasi 800.000 euro per i soli istituti cattolici, la Regione Veneto quasi cinque milioni.
Da questa sommaria ricognizione emerge come la somma erogata da tutte le amministrazioni locali italiane è persino superiore a quella stanziata a livello governativo. Poiché circa il 65% delle scuole paritarie italiane sono cattoliche o si ispirano alla morale cattolica, ed alcuni provvedimenti sembrano essere stati indirizzati soltanto a esse, il contributo a loro favore è stimato dall’Uaar in almeno 500 milioni.
UAAR – Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti