Il violinista Giovambattista, una vita per la musica, è morto suonando
Di Ilario Ammendolia
Giovambattista ebbe una sola grande passione in tutta la sua vita: la musica. Nessuna meraviglia che il paese lo considerasse un “pazzo” anche perché la musica non si poteva vendere. Non aveva mercato nell’economia del suo piccolo paese e, tra l’altro, la sua non era neanche musica sacra da suonare durante la messa e quindi non serviva per aprire le porte del Paradiso. Giovambattista non aveva fatto niente per scrollarsi di dosso la nomea di pazzo e i suoi compaesani non ebbero più dubbi dal momento che non aveva esitato un attimo a rifiutare un lavoro sicuro nella guardia di finanza per amore del suo violino.
Anticipò con una forte carica di disperata anarchia ,che sfociava in una ribellione individuale e non violenta ,il “Sessantotto “ . Ogni suo comportamento era una lama che lo separava dal resto della società come se volesse marcare la sua netta diversità rispetto ai “valori” d’una organizzazione sociale solo apparentemente razionale ma, in verità ipocrita, ingiusta e chiusa in se stessa.
In Paese l’ unica fonte del “sapere” era la tradizione secondo i canoni della tradizione cattolica che aveva il monopolio delle morale e delle retta via.
Giovambattista visse un’esistenza ai limiti estremi della povertà, senza però mai perdere la propria dignità, senza mai rinnegare il suo essere “ribelle” e senza mai alzare le braccia pur dinanzi alla forza preponderante del pensiero dominante. La musica lo rendeva sensibile e gentile.
Suonava nelle fiere , nei frantoi e nei mulini ad acqua , tra i campi quando si mieteva il grano, o si raccoglievano le olive; suonava sotto le finestre delle ragazze da marito quando qualche giovanotto innamorato glielo chiedeva. In Cambio non chiedeva l’elemosina ma un compenso, anche in natura: un pezzo di pane, un bicchiere di vino, un poco di formaggio olio o olive. A volte qualche vecchia giubba militare o un vecchio cappotto.
Era magro per natura ma anche per gli involontari digiuni, i suoi occhi erano mobilissimi come quelli d’un gatto nella notte, i capelli neri e non curati gli scendevano sin sulle spalle. Sembrava quasi che la musica l’avesse trasformato in puro spirito e , come un fantasma allampanato, si aggirava nelle vie del paese, fra tanti contadini schiacciati sulla terra dalla miseria e doloranti per le ferite nascoste che si portavano dentro . Ovviamente era deriso dal ghigno cafonesco dei perbenisti ed isolato dai “ ceti dominanti” spesso insensibili al dolore dei “vinti”.
Così, in una notte di luna piena, dal suo tugurio collocato su ciglio d’una rocca cadente, rivolse lo sguardo alla vallata: vide i monti e le cime degli alberi tendere verso la volta stellata e decise che anche per lui era giunto il momento di ricongiungersi alle mille fiammelle che ardevano in Cielo.
Guardò le tegole delle case e decise che non valeva la pena vivere altro tempo sotto quei soffitti anneriti che impedivano ai suoi compaesani di veder le stele. Suonò.
E poi suonò ancora per l’ultima volta ed il vento diffuse una musica dolce sfiorò le vecchie case, lambì i sordi palazzi, e poi si allargò come fumo bianco in tutta la vallata. La passera e la cornacchia, intenerite alzarono la testa, i cani cessarono di abbaiare, le vecchia e screpolata roccia ebbe un fremito di commozione per quel delicato addio al mondo.
Giovambattista si liberò dalla vita. L’indomani le vecchie campane piansero a lungo la sua morte.
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