Chi uccise Falcone e Borsellino?

Chi uccise Falcone e Borsellino?

Una riflessione di corresponsabilità sociale.

di Ornella Monteleone *

Ventotto anni fa – esattamente alle ore 16.58 – cento chilogrammi di tritolo dilaniavano il corpo del Magistrato #PaoloBorsellino e dei cinque uomini della scorta.

Era un’afosa giornata estiva, una domenica di Luglio, come quella di quest’anno.

A Palermo faceva caldo.

Molto caldo.

Ma non era soltanto un caldo stagionale.

Le temperature erano surriscaldate dai primi grandi contrasti alle intoccabili logiche di una Cosa Nostra prorompente ed inarrestabile.

Per comprendere, è necessario tornare indietro di circa 8 anni.

Siamo nel 1984, quando Tommaso Buscetta – per gli amici, Don Masino – viene arrestato in Brasile.

Ed è lui, il boss dei due mondi, a diventare il primo grande pentito della mafia siciliana, quando venne interrogato da un giovane magistrato 45enne, che di nome faceva Giovanni.

Giovanni Falcone.

Sarà Falcone, col suo carisma di uomo affidabile e perbene, a fargli rivelare i fatti e addirittura i nomi che si celavano dietro la complessa, fitta ed inestricabile rete di complicità e responsabilità mafiose che attanagliano la Sicilia.

Sarà Falcone a tracciare la via.

Per la mafia (quella vera, quella che conta) sarà un colpo mortale! Proprio da tali dichiarazioni, si innescó – il 10 Febbraio 1986 – il più #grande, #imponente, #sconvolgente #processo della storia che portó alla sbarra 475 tra i più efferati uomini mafiosi siciliani: è il primo #MAXIPROCESSO contro Cosa Nostra! Tutta Italia scopre per la prima volta l’esistenza del grande vertice criminale di Cosa Nostra: la #Cupola!

E’ la storia che cambia…

C’è la presa di coscienza pubblica di come esista un’entità parallela ed antagonista (a volte complice, persino alleata) alla Stato. Sono le parole degli stessi mafiosi – divenuti collaboratori di giustizia – a materializzare agguati, legami, intrecci e corruzione.

Per il maxi processo, viene stabilita la partecipazione di un numero doppio di membri della Corte, per evitare eventuali interruzioni nel prevedibile caso che alcuni di essi potessero venire uccisi!

La tensione è alle stelle. Una stagione nuova sembra affacciarsi dietro i Monti di Palermo.

Il 16 Dicembre 1987 la Corte di Assise pronuncia la sentenza:

Falcone e Borsellino hanno ragione!

Agli uomini d’onore verranno inflitti 2.665 anni di carcere e 19 ergastoli, ciascuno per ogni componente della Cupola.

Cinque anni dopo, la Cassazione, renderà definitive le MAXI CONDANNE.

Ma il 19 Gennaio 1988, é il CSM a trovarsi dinnanzi una scelta cruciale: bisogna procedere alla nomina a capo dell’Ufficio di Palermo. Non una Procura qualunque.

Bensí quella caldissima di Palermo.

Quella del primo maxiprocesso, dei primi collaboratori, del pool antimafia.

Quella di Falcone, insomma!

La scelta appare quasi scontata: Falcone ovviamente!!!

Ed invece no!!! Incomprensibilmente, no.

Viene scelto un altro magistrato, un giudice che di Cosa Nostra ne ha sentito parlare soltanto sui giornali. #Borsellino si #indigna per la sconfitta di Falcone – il suo amico di sempre – e rilascia due pungenti interviste contro l’operato assurdo dell’organo supremo della Magistratura.

È questo l’inizio della fine del pool antimafia.

“Le indagini si disperdono!

Hanno tolto a Falcone le grandi inchieste.

Il pool antimafia è disfatto!

Stiamo tornando indietro di 10/20 anni!!” – denuncerá Borsellino.

Nella seconda intervista che egli rilascia al pubblico, riconosce la gravità (unitamente alla doverositá etica e morale) di quanto aveva dichiarato nei confronti del supremo organo della Magistratura

“Io rischiai conseguenze professionali gravissime ma almeno, mi dissi, l’opinione pubblica lo deve sapere!!”

Nella Biblioteca comunale di palermo – il 25 giugno 1992 – Paolo Borsellino muove ulteriori pesanti accuse contro l’operato del CSM:

“Il pool antimafia deve morire davanti a tutti!!!Almeno tutti devono sapere. Non deve morire in silenzio!”

L’impegno di Giovanni Falcone finirá il 23 maggio 1992: giorno della drammatica strage di Capaci.

Da allora, Borsellino comprende che la guerra è persa e che egli può soltanto provare a vincere qualche battaglia ancora.

Borsellino sente di avere poco tempo.

Percepisce sul collo il fiato sempre più vicino ed ansimante di Cosa Nostra ed il sostegno di “entità” – parti dello Stato e della Magistratura – sempre più flebile, sfuggente, impalpabile.

“Devo fare presto, perchè non ho tempo” – confiderá rassegnato alla sorella.

Dopo la morte di Falcone, i grandi pentiti di mafia cominciano a temere per la propria vita.

E a ritrattare.

Anche lui, Vincenzo Calcara – l’uomo che avrebbe dovuto uccidere Paolo Borsellino – confidó al Magistrato di avere paura:

“Borsellino mi rispose: <<Vincenzo, tu hai paura ma devi sapere una cosa: Vincenzo, chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore solo una volta>>. Io gli dicevo: <<Dottore si metta in salvo! Hanno ucciso Falcone! Stia attento, si guardi a destra a sinistra, lei morirà Dottore!!! E se non è possibile uccidere Lei… Cosa Nostra, per dare un segnale a Lei, ucciderà un suo sostituto! Cosa nostra sa che lei vuole bene tanto ai suoi sostituti. Noooo!!! I sostituti no! Si lasció sfuggire questa frase e i suoi occhi cambiarono espressione per sempre”.

La profezia di Calcara si rivelerà concreta.

Borsellino vivrà soltanto altri 57 giorni dopo la morte del suo amico Falcone.

Sarà Totó Riina a deciderlo:

“Mi assumo io la responsabilità di uccidere Borsellino!” – dichiarerà prepotentemente il boss corleonese nelle piccole riunioni segrete, dinnanzi agli altri capi.

E saranno gli uomini di Provenzano ad organizzare l’attentato nei minimi dettagli.

Paolo Borsellino apprenderá “per caso”, da alcune informative dei Carabinieri, che in Sicilia era arrivato il tritolo “per uccidere il Magistrato Borsellino”.

Segnale inequivocabile di un apparato amministrativo inceppato e di uno Stato distratto dinnanzi alla sicurezza dei suoi migliori Generali.

Ed un’ afosa domenica d’estate – il 19 Luglio 1992 – in via D’Amelio, quell’autobomba esplose.

Venticinque furono gli ergastoli inflitti.

Uno anche per Totò Riina, il mandante morale – il capo dei capi – che in un dialetto possente, aveva decretato che quell’uomo di legge troppo si stava impicciando degli affari che non erano “cosa sua, ma nostra”.

Ma ad oggi, cos’è cambiato?

Nulla.

I Magistrati che lottano contro la mafia sono ancora soli.

Mettono a rischio la propria vita e quella delle proprie famiglie.

Percepiscono perfettamente la palpabile presenza di certe entità contigue agli ambienti mafiosi, corrotte, di anelli intermediari di congiunzione tra il bene e il male che favoriscono fughe di notizie, nel tentativo di rendere immutabile il sistema e distorta la realtà dei fatti, gettando fango sulle persone perbene e fumo negli occhi di chi osserva.

Questi Magistrati lottano, ancora adesso, contro la Mafia, la Camorra, la ‘Ndrangheta.

Ed ancora adesso contro quelle medesime “entità” contigue, che sono parti di Stato e “Stato nello Stato”.

Combattono, inoltre, contro una parte della medesima Magistratura, quella corrotta, che siede talvolta ai posti di comando.

Ecco la nostra vera sfida: discernere l’onestà morale e stare dalla sua parte. Sempre.

Poichè serve il coraggio di stare dalla parte dei giusti.

*Avvocato

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