Intervista a Nadia Urbinati della Columbia University di New York
di Aurelia Zucaro
Poche volte capita di sentirsi presenti alla storia, probabilmente il periodo che stiamo attraversando rappresenta uno dei rari casi. L’emergenza sanitaria, insieme ad alcuni terribili fatti di cronaca, sta stimolando riflessioni e domande che premono per trovare risposta. Quel che sembra è che i problemi sopiti durante il lockdown siano esplosi con tutta la loro forza ai primi segni di riapertura: problemi sociali, di disuguaglianze, di fragilità istituzionali e di risposte ancor più deboli. Il risultato è duplice: da un lato, si registra un dilagante malcontento della popolazione, che a macchia d’olio si propaga dagli Stati Uniti all’Unione Europea; dall’altro, assistiamo a uno sforzo inedito di comunicazione e ricerca del compromesso tra le forze politiche al governo (sia a livello nazionale che sovranazionale), nell’ottica di una ritrovata responsabilità nei confronti di cittadini, e intere generazioni, che si sono trovate ad affrontare due crisi enormi in dieci anni .
Ne ho parlato con Nadia Urbinati, docente di Teoria Politica alla Columbia University di New York. La studiosa avrebbe dovuto essere ospite del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università della Calabria, invitata dal Direttore Francesco Raniolo, ma il lockdown ha fatto rimandare l’appuntamento al prossimo anno. Perciò, questa intervista, si è svolta rigorosamente a distanza.
Vorrei partire da un commento sul recente fatto di cronaca che ha scosso l’opinione pubblica internazionale: l’uccisione di George Floyd da parte della polizia americana. Si è trattato di razzismo o è piuttosto un problema generalizzato che ha a che fare con la brutalità della polizia americana?
È senza dubbio razzismo brutale operato dalla polizia americana, che è brutale come tutte le polizie, ma lo è in particolare con alcune minoranze, tenute sotto costante sorveglianza. Ci sono “profiling” creati sulla base di caratteristiche razziali, personali e sociali, utilizzati dalla polizia per categorizzare soggetti coinvolti in reati di furto, omicidio, spaccio e mobbing. È un’operazione sistematica che la polizia fa da molti anni per individuare le minoranze sotto osservazione. Indubbiamente gli afroamericani sono “la” minoranza per eccellenza. Vi è poi un aspetto culturale che riguarda la polizia americana, in cui il razzismo è estremamente diffuso. Ciò perché molto spesso essa stessa è formata da soggetti appartenenti a minoranze, etniche o di classe. La competizione tra le minoranze per emergere nella società esiste da sempre e non appena una di queste riesce a entrare nell’establishment, sente di dover avere un distacco, se non una “repulsione”, nei confronti delle minoranze da cui si è emancipata.
Anche Obama, contravvenendo a una regola non scritta di buon galateo politico, (che vorrebbe che gli ex presidenti non si esprimessero su questioni di attualità per sollecitare comportamenti di voto), ha commentato con forza questo episodio, ricordando che il razzismo fa parte dell’America, la cui Costituzione è nata sull’onda del controverso compromesso della schiavitù. Lei ritiene che L’America di oggi abbia gli strumenti per superare questa grande contraddizione?
Innanzitutto, va ricordato che nel Settecento nacque una repubblica, non una democrazia, con una struttura fondata su due importanti tradizioni filosofico-politico-religiose: quella deista-razionalista dei padri fondatori, immersa nella cultura classica repubblicana romana, e quella calvinista, di tradizione protestante. Entrambe hanno in comune una cosa: l’idea che la libertà è un merito, non un diritto, e la condizione per averla è l’impegno politico competente del buon cittadino. Quindi essere liberi vuol dire avere una base economica autonoma e non dipendere da nessuno (“non essere schiavi né servi). Ciò si è tradotto in due modi: al Nord, nell’etica del lavoro e nell’intraprendenza; al Sud, nell’aristocratismo repubblicano, con una distinzione tra liberi e servi. Il lavoro è il nucleo fondamentale in entrambi i casi, poiché serve sia per includere che per escludere. Quest’ossatura non è scomparsa nell’America contemporanea. L’ethos americano è fondato sul merito e sull’impegno personale. Chi non lavora ha meno voce e le ragioni per cui non si lavora non vengono neanche prese in considerazione. È qui che risiede il problema sociale: la “classe” sociale negli Stati Uniti non esiste, è un concetto che non fa parte
della struttura culturale del paese (come è invece per gli Stati europei, che hanno conosciuto l’aristocrazia medioevale e feudale). Loro sono nati come Stato di immigrazione volontaria e quindi in condizioni di uguaglianza. Esiste invece la personale responsabilità: se lavori vinci, se non lavori non vinci. Lo Stato interviene dove non ci sono “capacità individuali” e gli aiuti e le leggi che vengono fatte in supporto delle categorie in difficoltà sono viste come uno “stigma”. Lei mi chiedeva se questa contraddizione si può correggere con la democrazia. Molto difficilmente. Sicuramente non per volontà politica. La correzione, in America, può avvenire solo tramite la ricchezza e l’espansione economica. È l’unico modo che l’America ha per risolvere le proprie contraddizioni interne, che sono basate proprio sull’idea della piena occupazione, del lavoro e della felicità individuale. Se questo manca, il popolo americano non ha nessun motivo di stare insieme in maniera pacifica.
Nel suo saggio “La democrazia illiberale non esiste” scrive: “La democrazia costituzionale si regge sui due poteri di cui si compone: quello decisionale e quello dell’opinione”. A Suo parere, i movimenti di protesta come “Blacks lives matter”, e le rivolte che in questi giorni si stanno consumando nelle strade di tante città americane, possono avere il potere di produrre e cambiare le opinioni, e quindi le decisioni dei cittadini davanti alla prossima scheda elettorale?
In America le contestazioni hanno vinto, riuscendo a cambiare le mentalità, quando sono state pacifiche. Ma l’America è violenta e anche le contestazioni pubbliche possono degenerare in violenza. Quando questo avviene non aiuta la formazione di un’opinione pubblica riformista. Paradossalmente aiuta gli altri, coloro che considerano “law and order” le condizioni imprescindibili del governare. Le contestazioni di questi giorni non possono e non devono sfociare nel vandalismo e nella devastazione, poiché questo non fa che alimentare le strumentalizzazioni da parte dei cittadini conservatori. Il modello dovrebbe essere invece quello delle lotte pacifiche per i diritti civili degli Anni Sessanta: una lotta per la cittadinanza, basata sui principi costituzionali di unità, per essere riconosciuti come parte integrante dell’America. Questa lotta funziona, perché dimostra che coloro che la intraprendono si emancipano, diventano “onorevoli” come cittadini, diventano attori politici. Nel caso di Luther King si trattava di trovare una risposta al problema razziale. Oggi sarebbe necessaria un’altra ondata di lotte da parte di cittadini in condizioni economiche e sociali che rendono la loro cittadinanza “inattiva”, impotente. Dunque, non tanto la moltitudine in piazza a protestare, ma una lotta concreta, legata a uno specifico problema da risolvere.
Trump annuncia di voler usare l’esercito contro i manifestanti, ricorrendo a una legge del 1807, l’Insurrection Act; e lo dichiara con una Bibbia in mano, definendosi un presidente “legge e ordine”. È un atto dovuto o una dimostrazione di forza?
No, non è un atto dovuto perché è scelto. Potrebbe scegliere di fare diversamente. Ma sceglie questo perché sa bene, come tutti i populisti sanno, che la possibilità di vincere aumenta se si riesce a “radicalizzare una contrapposizione manichea”. Quando lui si dichiara lo “sceriffo degli Stati Uniti”, sta dichiarando che esiste una parte degli Stati Uniti ribelle, che va sedata e con cui giustifica ogni azione “law and order”. Non è un caso che le manifestazioni di questi giorni, con forme di violenza dovute anche a infiltrazioni da parte dei razzisti che vogliono stimolare reazioni coercitive, avvengano soprattutto in grossi centri, nelle grandi città tradizionalmente democratiche. È un chiaro disegno da parte di Trump, che ha palesemente già iniziato la sua campagna elettorale.
Passiamo al nostro continente, sul filo conduttore delle azioni di forza prese dal potere governante in condizioni di emergenza. Negli Stati Uniti si sono intensificate dopo l’esplosione delle proteste afroamericane. In Europa, sono invece legate al proseguire dei timori dovuti al perdurare degli effetti (sociali, sanitari, economici, finanziari) da Coronavirus. Fra le tante iniziative, il rilascio dell’app “Immuni”, per tracciare chi è venuto in contatto con un “positivo” al virus. Lei ritiene che sia il punto di non ritorno verso la “sorveglianza totale”?
La sorveglianza fa parte della nostra vita. Noi siamo sorvegliati da molti anni, ben prima dell’app Immuni o di altre app. Siamo sorvegliati dalle multinazionali che già sanno di noi tantissimo. Se interviene lo Stato, peraltro appoggiandosi a quelle multinazionali, la forma di controllo quanto meno è vincolata ai parametri costituzionali. Il problema è un altro: gli Stati che delegano alle corporation la creazione delle app di controllo, non hanno su di loro un potere sovrano. Anzi, spesso si trovano di fronte a una forte disparità di potere e di decisione, in cui le aziende globali hanno la meglio. Lo Stato ne esce fortemente indebolito e di conseguenza il cittadino, al quale non può garantire affatto tutte le tutele (di privacy, diritto all’oblio, ecc…) che invece afferma di poter dare, mettendolo al riparo “dall’illegalità”. Il fatto che i comportamenti sull’utilizzo dei dati, da parte alcune corporation, siano illegali, non vuol dire che siano contrastabili. Per farlo sarebbe necessario un intervento globale, o comunque da parte di più Stati insieme.
L’aspetto della regolamentazione globale è quello più difficile, soprattutto in un sistema come quello dell’UE in cui per alcune decisioni fondamentali è necessaria l’unanimità. E a proposito di Unione Europea, questa è stata messa a dura prova dall’emergenza. Lei crede che il protrarsi di questa situazione (le frontiere chiuse, l’incertezza economica), possa mettere in pericolo la tenuta dell’UE e il già scarso senso di appartenenza dei cittadini europei?
Io non credo affatto che l’Unione Europea sia in crisi. La difficoltà di circolazione, che ha “sospeso” Schengen per un periodo, è l’equivalente dello stop agli spostamenti interregionali nel nostro Paese. È transitorio e tornerà alla normalità. Il problema è invece economico e sociale e su questo mi sembra che l’Unione, su stimolo dell’Italia con il discorso di Conte sugli ormai famosi “principi di marzo”, abbia preso in seria considerazione le richieste provenienti dall’Italia e dagli altri paesi più colpiti dal virus. È importante che sia stata introdotta la logica dei bond, come metodo di immissione di moneta nel mercato. È inoltre fondamentale che passi l’idea di una fiscalità europea nei confronti delle grandi corporation, con tasse forti e certe alle quali non possono sottrarsi, pena la rinuncia a un mercato grande e potente come quello europeo. Sono certa che alla fine l’UE troverà un accordo, come ha sempre fatto. In questo senso credo che la pandemia abbia reso l’Unione più forte. Quanto ai cittadini, invece, credo sia importante riuscire a far vedere che gli strumenti messi in campo dall’Unione sono un “salvagente” per tutti. Non per gli italiani, gli spagnoli o i francesi. Bisogna che ci sentiamo co-responsabili di un progetto che porta benefici a tutti.
Ultima domanda: il tempo negli ultimi mesi si è fermato. Quanto conta il tempo nel processo di costruzione di un’identità? Abbiamo il tempo di scoprirci corresponsabili della buona riuscita di un progetto democratico (magari, proprio quello dell’Unione Europea)? O le “politiche dell’emergenza” rischiano di perdere di vista l’aspetto comunitario?
Se il problema di formare le coscienze fosse solo ideologico ci metteremmo generazioni e non ne basterebbero due insistendo ogni giorno! Ma se si interviene con elementi economici, dove l’interesse individuale è messo in moto ed è parte di un interesse più grande, allora ci si può riuscire. E non è una bestemmia. L’interesse è l’elemento che cementa un ragionamento e anche una comunità. Se io avverto di avere una comunanza di interesse con chi vive in altri paesi europei, e lo avverto non perché ho un’ideologia che condiziona la mia mentalità, ma perché lo vedo concretamente, nelle possibilità che ho di operare scelte nella vita quotidiana, allora mi convinco facilmente. Questa è la grandezza delle democrazie moderne. Quello che Tocqueville chiama “L’egoismo beninteso”: comprendere che è nel mio interesse far parte di una comunità.