Per fregar la morte
La cosa più straziante, in questo periodo difficile e surreale, è la sensazione di “abitudine alla morte”.
Ogni sera, intorno alle 18:00, ciascuno di noi ascolta in tv quello che sembra essere un bollettino di guerra, in cui viene comunicato il numero delle vittime del giorno.
Così le persone diventano numeri, le loro storie si sovrappongono fino a spersonalizzarsi, la loro morte diviene materia per le statistiche. Eppure, dietro quelle cifre che scorrono come lacrime gelide, si consuma la sofferenza di chi ha perso un amico, un familiare, la persona amata.
Le notizie e le immagini arrivate da Bergamo sono un pugno allo stomaco: una colonna di mezzi dell’esercito italiano, in fila solenne e composta, trasporta fuori dalla città le bare di uomini e donne affinché siano cremati fuori regione, in quanto a Bergamo non c’è più posto. Nessuno ha potuto porgere un ultimo saluto a quei corpi che vanno via, per evitare assembramenti e, quindi, ulteriore contagio. Il dolore rimane celato tra le pareti di case che sono oggi salvezza e prigione.
Di fronte a ciò, soltanto impotente rabbia e rispettoso silenzio.
Ci si aggrappa alla vita che ha voglia di continuare a scorrere nutrendosi dell’impegno di chi lavora senza sosta per tutelarci, e che dipende più che mai dalla nostra capacità di resistere e di rispettare le restrizioni ormai note.
Mai come questa volta, ciascuno di noi può e deve agire in nome dell’interesse collettivo.
Dobbiamo farcela, e ce la faremo, anche per chi non c’è più. Soprattutto per chi non c’è più.
Tutti insieme: dalla Sicilia al Piemonte, da Reggio Calabria a Milano.
Perché alla morte non ci si abitua mai, e il miglior modo per fregarla è tornare ad abbracciarci presto. Ancora di più, ancora più stretti.
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