L’impegno della chiesa cattolica contro il Coronavirus? Ridicolo. Vi spieghiamo perchè
La mezza verità è spesso essenziale nella comunicazione propagandistica. Pensiamo ad esempio ai giorni successivi ogni tornata elettorale: se non si verificano cataclismi sono tutti vincitori, nessuno ha realmente perso. Le interpretazioni fantasiose dei dati prevalgono, o si cerca di farli prevalere, sui crudi e inesorabili numeri. Avete perso il 5%? No, siamo risaliti rispetto al 7% che perdevamo tre mesi fa! Oppure, rispetto alle europee dello scorso anno siete in evidente flessione. Sì, ma rispetto alle amministrative di due anni fa manteniamo lo stesso numero di sindaci! L’imperativo è: pensare positivo, trasmettere positività.
Lo stesso principio si applica anche al di fuori del contesto politico. Vale ovunque sia necessario catalizzare l’attenzione della gente, marketing compreso: il mio detersivo è il numero uno contro le macchie, mai il numero due. E vale anche quando bisogna sbandierare un impegno tutto sommato modesto. Basta non parlarne in termini relativi ma in termini assoluti. Come ha fatto Muolo sul quotidiano della Cei a proposito di quanto la Chiesa cattolica sta facendo per l’emergenza coronavirus. Intervento dovuto, vista (cfr) “la deprecabile falsa notizia, artatamente messa in circolazione sui social e rilanciata con sospetta evidenza anche da qualche quotidiano, di un presunto immobilismo della Chiesa cattolica”.
E allora vediamo in dettaglio quale sarebbe questo contributo cattolico. In premessa un contributo in vite umane con annesso elenco di preti morti sul campo. Morti reali, non certo inventati. Anzi perfino parziali, perché realmente il tasso di decessi è alto tra i religiosi, moltissimo se si prendono in considerazione anche quelli morti in comunità. Per questi ultimi è proprio la comunità il problema, come lo è per numerose altre come ad esempio le case di riposo. Che è poi la ragione per cui tutte le comunità non essenziali sono state sospese, a cominciare dalle scuole. Chi non è morto in comunità, tra i preti, ha contratto il virus comunque in ambienti comuni quali istituti di detenzione e sanitari. Il problema è che in tali luoghi, in questo momento, non dovrebbe starci nessuno non indispensabile, e infatti gli ospedali non eseguono prestazioni differibili e limitano al massimo l’accesso agli estranei, parenti compresi, perché tutti potenziali veicoli di trasmissione del virus. Perché i religiosi sono invece ammessi? Perché permettere loro di trasformarsi in untori, come evidentemente già avvenuto, in assenza di ragioni valide per la loro presenza?
È il principio delle deroghe su base religiosa, sempre ammesso con buona pace di quello della laicità delle istituzioni. Deroghe che consentono di trasformare, in assenza del prete, gli stessi sanitari in ministri di culto. Come se mancassero loro cose migliori da fare. Deroghe che consentono perfino di traslocare crocifissi in barba a tutte le disposizioni che vietano lavori non strettamente necessari. Come se spostandoli potessero essere efficaci contro la pandemia, quando invece è molto più verosimile il contrario. Tant’è che gli uffici vaticani continuano a rimanere aperti “allo scopo di evitare il contagio” (parole del comunicato ufficiale) e nel frattempo si registrano quattro positivi.
Poi il contributo economico nella misura di 13,5 milioni di euro dai fondi dell’Otto per mille definito da Muolo, con evidente sprezzo del ridicolo, “ingente stanziamento”. Ridicolo perché solo dall’ultima ripartizione alla Chiesa cattolica sono andati ben 1,13 miliardi di euro, dei quali quei 13,5 milioni rappresentano meno dell’1%. I buddisti della Soka Gakkai, tanto per fare un paragone, hanno deciso di stanziare il 100% del loro Otto per mille per l’emergenza pur non avendo idea di quanto varrà, dal momento che loro sono ammessi dal 2017 e la ripartizione di quell’Irpef avverrà solo quest’anno (dovrebbero essere almeno 3,5 milioni). La Chiesa cattolica invece la sua fetta la riscuote pure con tre anni di anticipo rispetto a tutti gli altri. Inoltre i buddisti dell’Ubi hanno donato tre milioni e i valdesi ne hanno donati otto, come già detto in precedenza. Per la cronaca, i 13,5 milioni complessivamente erogati dai cattolici sono andati 10,5 alla Caritas e 3 a varie case di cura cattoliche. Due partite di giro, dato che come tutti sanno la Caritas è emanazione della Chiesa, purtroppo spesso foraggiata con denaro pubblico, e quelle cliniche lo sono per definizione.
A questo si aggiungono vari altri contributi: 15 mila euro da una diocesi, 30 mila da un’altra, un ventilatore polmonare di qua, un respiratore di là. Lo stesso papa ha donato in pompa magna 30 respiratori, ma di donazioni simili ce ne sono quotidianamente anche da parte di personaggi famosi e imprese, tutta gente cioè che non fa della carità il suo scopo: due li ha donati Bruno Vespa, tre Raffaele Vrenna, cinque da Zte, otto dal gruppo Camozzi, ben 65 da Pirelli, solo per citare i primi risultati restituiti da Google. E poi, sempre secondo Avvenire, la questione fondamentale: tutto ciò va aggiunto a quel 9% di Otto per mille che normalmente la Chiesa investirebbe nel sociale. Ma a parte che di normale in questo momento c’è ben poco, e a parte che anche altre confessioni beneficiarie hanno in passato investito parti anche più consistenti nel sociale, gli slogan che stimolano i contribuenti a firmare per la Chiesa cattolica non citano il sociale solo al 9%. E nemmeno al 50%. Lo citano al 100%. Anche qui si vede l’arte della mezza verità, la stessa del partito che non perde mai o del detersivo che lava più bianco. Tutte parole che vengono proposte come una smentita di quanto affermato da noi e da altri, ma a leggerle bene sono in realtà una conferma. Solo esposta “artatamente”, per usare le loro stesse parole.
L’imperativo è comunque quello di non abbandonare la presa della comunicazione, di essere presenti quanto più possibile e a qualunque costo. Sfruttando anche il servizio pubblico radiotelevisivo: i fedeli non possono andare in Chiesa, quindi pensano loro ad andare nelle case grazie a un mezzo che però non è pagato solo dai fedeli. Pensano anche a difendere il privilegio con le unghie e con i denti; la prima edizione della messa papale, quella di mercoledì 25, ha infatti subito un troncamento e subito si sono alzati gli scudi clericali. Filippo Anastasi ha tuonato: «All’epoca mia, quando ero direttore dell’informazione religiosa della Rai io avrei perso il posto. Meditate gente, meditate». Il deputato e segretario della commissione di vigilanza Rai Michele Anzaldi (Italia viva) ha commentato: «I frutti di questa sciatteria offrirebbero materiale per una seria riflessione sull’azienda, oltre che la solita amara considerazione che tanto a pagare è Pantalone». Ma se appunto paga Pantalone, cioè noi tutti, a maggior ragione non si dovrebbe permettere a nessuno di sfruttare il servizio come roba sua.
Oggi, nonostante tutti gli sforzi nel cercare di mantenere intatto il make-up della Chiesa cattolica, nonostante tutti i tentativi di rilettura dei dati, la terra sotto la basilica di San Pietro trema. Se in tempi tranquilli una buona fetta di gente dava credito alle gerarchie ecclesiastiche e alla loro propaganda, in tempi di pandemia la gente sembra avere una visione più ampia e chiara, e non sono solo l’Uaar e le altre realtà laiche a dirlo. Forse nel 1522 i cittadini avranno pensato davvero che sia stato il crocifisso miracoloso a fermare la peste a Roma, ma oggi, a distanza di mezzo millennio e pure coi danni provocati al manufatto dalla pioggia, sarà dura convincerli che le preghiere servano a qualcosa. Bisognerà trovare buone scuse per spiegare loro perché il dio cristiano ha fatto saltare proprio la sua festa più importante, ovvero la Pasqua, per la quale ci si augura che non saranno ammesse deroghe estremamente pericolose per la salute pubblica. Il rischio di fare la fine del pastore Spradlin, che diceva di aver capito tutto ed è rimasto sì folgorato sulla via di casa ma dal virus, non è trascurabile.
di Massimo Maiurana