Un racconto di Angelica Barbiero: la farfalla
di M. Angelica Barbiero
Per te era così facile farmi sentire amata. Ero felice che tu, tra tutte, avessi scelto me. La ragazza timida e impacciata, la ragazza invisibile. Credo di averti aspettato da tutta la vita, la mia giovane vita. Lo so, 21 anni potranno sembrare pochi per qualcuno, ma io ero in attesa, ti aspettavo da tanto tempo.
Ricordo ancora, anche da questo luogo in cui mi trovo ora, le scuole superiori. Le mie compagne di classe erano tutte bellissime. In particolare ricordo Serena. Sembrava sempre danzare. Si poggiava sulle cose della vita come una splendida farfalla. Con delicatezza, senza sostare troppo. Quando ti sembrava di poterla prendere tra le mani era già volata via. Si lasciava ammirare da tutti. E tutti la desideravano. Io, invece, desideravo essere come lei. Desideravo essere ammirata. Desideravo essere vista.
Poi, un giorno, ci siamo incontrati. Lo ricordo bene. Eravamo entrambi ad una festa universitaria, organizzata a casa di qualche collega desideroso di far casino, di godere di quei vent’anni in cui senti di poter tutto, di avere ancora tutto il tempo del mondo per fare e disfare qualunque cosa. Ti sei avvicinato a me. A quella ragazza goffa nell’angolo. Perché lo hai fatto? Ancora oggi, anche da qui, non lo capisco. Il tuo sguardo, per la prima volta nella vita, mi ha fatto sentire farfalla. Ma non sapevo, non potevo sapere, che quel momento avrebbe innescato il mio “butterfly effect”. Ricordi? Lo abbiamo visto insieme quel film: “Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”. Con te ho battuto le ali, ma non avevo ancora idea delle conseguenze che ne sarebbero derivate.
All’inizio è stato tutto così meravigliosamente normale, mi corteggiavi, mi guardavi con quei tuoi occhi così profondi, mi facevi sentire amata, mi volevi tua, tutta per te. Ero lusingata. Non conoscevo l’amore prima di te. Non conoscevo il desiderio. Ma dopo un paio di mesi, la vita reale ha di nuovo bussato alla porta. La sessione estiva si avvicinava e dovevo studiare. Le mie amiche reclamavano attenzioni. Ho anche litigato con Giulia. Te la ricordi, vero? La mia amica di sempre. Quella che c’è sempre stata. Diceva che passavo troppo tempo con te, che tu la guardavi con sfida, con rabbia, che eri scortese con lei, ma io non le credevo. Esagerava, forse era gelosa della nostra relazione. Non capiva perché ti amassi così tanto, fino “ad annullarmi” diceva. E allora, per zittirla, i primi di giugno sono uscita con lei, siamo andate al pub. Abbiamo trascorso una bella serata, come ai vecchi tempi. Tu non smettevi di scrivermi, mi chiedevi cosa stessi facendo, chi fosse al pub, mi chiedevi di inviarti continuamente delle foto. Così per tranquillizzarti a fine serata sono passata da te, per un saluto. Sei sceso in strada, ma non ti ho riconosciuto subito. Eri diverso in volto. Avevi un’espressione… furiosa. Non ti avevo mai visto così. Ho pensato che avessi litigato con tua madre. Ma quando ti ho chiesto cosa fosse accaduto, mi hai urlato “stronza” e mi hai spinta. Non me lo aspettavo, il colpo è stato così forte e improvviso che sono caduta a terra, sbattendo la testa. Poi ricordo solo che il mondo si faceva sempre più lontano, le lacrime mi impedivano di vederti, ero terrorizzata. Sono scappata via. Quella notte non ho chiuso occhio. La mia mente era in totale blackout. Era stato un incubo o era accaduto davvero?
La mattina dopo ho trovato un tuo messaggio sul telefono, dicevi di volermi parlare. Ho accettato perché ti amavo ancora, perché forse ti amavo più di quanto amassi me stessa. Hai pianto, mi hai supplicato di perdonarti, mi hai detto che non sapevi cosa fosse successo, eri stato geloso perché ero uscita da sola con Giulia. In quel momento ho pensato che, forse, eri geloso perché mi amavi tanto e che, in fondo, nemmeno tu avevi avuto una vita facile, senza un padre e con una madre troppo impegnata a tirare su due figli da sola per poter vedere la tua solitudine e il tuo dolore. E ho fatto ciò che avevo sempre fatto. Ti ho perdonato. Come avevo perdonato Serena, la ragazza farfalla, che a scuola mi aveva derisa e umiliata davanti a tutti, raccontando loro della malattia di mia madre. Che poi che colpa ho io se mia madre si è ammalata di SLA? Che colpa ha lei? Ma poi ho perdonato Serena, mia madre diceva sempre di essere superiore, che la vera nobiltà sta nell’animo delle persone. Così ho creduto a mia madre, ho creduto che perdonare fosse nobile. E ho perdonato anche te.
Per qualche giorno mi sembrò che tutto fosse tornato alla normalità. Ci vedevamo spesso e tu eri dolce, dolcissimo. Un paio di giorni prima dell’esame di analisi matematica, decidemmo di riunirci a casa di un collega, Marco. Marco era un bonaccione, sempre disponibile con tutti. Era molto gentile con me, come lo era con chiunque altro. Tu mi hai accompagnata, lo ricordi vero? L’abbraccio innocente che Marco mi ha dato sulla porta non ti è andato proprio giù. Hai aspettato tre ore fuori da casa sua e quando sono uscita, prima di riportarmi a casa, in macchina mi hai picchiata così forte che sono svenuta. Quando sono rientrata a casa sono corsa in camera mia con la scusa di dover studiare per l’esame, nessuno ha sospettato di nulla. Sono sempre stata diligente nello studio. Mi sembrava, prima di conoscere te, che fosse l’unica prospettiva praticabile nella mia vita. Quella sera ho chiamato Giulia, singhiozzando. Lei voleva accompagnarmi dalla polizia per denunciarti, ma io l’ho dissuasa con la promessa che ti avrei lasciato il giorno dopo.
Provavo un dolore sordo, ma non avevo paura di te. Ora mi rendo conto di essere stata ingenua. Ti ho scritto un messaggio dicendoti di voler chiudere la nostra relazione, ma ti ho anche chiesto di vederci. Non so come mai. Forse perché le brave ragazze devono sempre dare una spiegazione. Forse perché non mi vedevo come una vittima. Per me eri sempre tu la vittima. Della tua famiglia. Dei tuoi amici. Del mondo.
Sono uscita di casa, ho salutato mia madre con un bacio veloce. Non volevo vedesse il livido sul mio zigomo. Se avessi saputo come sarebbe andata da lì a poco forse l’avrei abbracciata. L’avrei stretta forte a me e le avrei sussurrato di non aver paura. Ma il mio butterfly effect si era innescato tempo prima ed io ne ero all’oscuro. Fino a quella sera d’estate. Quando sono salita sulla tua macchina per lasciare te e invece ho lasciato per sempre me stessa.
Guidavi con lo sguardo fisso nel vuoto. Io ti parlavo ma non un’emozione traspariva sul tuo volto, quel volto che avevo così tanto amato. Ci siamo allontanati sempre più dal centro della città, ma me ne sono resa conto troppo tardi. Ti sei fermato all’improvviso nella pineta buia vicino al mare, la stessa che guardavo sempre dal finestrino dell’autobus che mi riportava a casa da scuola. Mi hai guardata negli occhi. Era uno sguardo vacuo, non eri più tu. Chissà dov’era la tua mente. Ti stavo lasciando, ma ancora mi preoccupavo per te. Poi è stato un attimo, ho visto la luce fioca di un lampione lontano riflettersi sulla superficie liscia di un oggetto che tenevi in mano. Troppo tardi ho capito che cosa fosse. Ho visto quel coltello entrarmi nel petto. Ho sentito la vita fuggire. Ero sempre più debole, tutto era così lontano. Ho pensato a mia madre. Sarebbe rimasta sola, senza di me. Mamma scusami, volevo solo essere una “brava ragazza”. Volevo guardarlo negli occhi per l’ultima volta. Volevo che lui capisse perché gli stavo spezzando il cuore e, invece, lui ha spezzato il mio.
Ho saputo che ti sei costituito, che mi hanno trovata in macchina con te. O meglio, hanno trovato il mio corpo, io non c’ero già più. Il processo è stato lungo e doloroso per tutti. Anche per te. Lo so perché ho visto cosa hai fatto. Ho visto la corda, ho visto l’albero a cui l’hai legata. Forse pensarti trent’anni chiuso in una cella era troppo per te. Ho visto cosa hai fatto. E ho provato pena per te. In fondo continuo ad essere una brava ragazza. Hai scelto di andartene. Non so se per paura o rimorso, non lo saprò mai. Ma forse, ormai, non ha più importanza.
So però che non sei qui con me. Non sei nel luogo in cui mi trovo ora.
In effetti non so bene dove mi trovo. Ma non sto male. Non preoccuparti mamma, non preoccuparti Giulia. Ora sono leggera. Forse sono diventata finalmente una farfalla.
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