Hai presente il furto del futuro?
All’osteria “Il cane che dorme”, tra la quinta e sesta bottiglia di vino, procedeva tutto secondo la più familiare dinamica della discussione del mercoledì pomeriggio.
Quelle del lunedì e del martedì non lasciavano strascichi particolarmente importanti. Quella del mercoledì, invece, aveva il sapore aspro dello scollinare la settimana misto all’ottimismo neofuturista di un traguardo se non proprio a portata di mano, quantomeno visibile. Giovedì, venerdì e sabato erano un unico giorno di 72 ore. Domenica la tregua.
Paolo, Paolo, Paolo e Paolo erano al loro tavolo. Ai loro fianchi scorreva il mondo che nessuno dei quattro voleva sconvolgere e che ognuno dei quattro cercava in qualche modo di capire.
Un giro di vino.
Paolo, Paolo, Paolo e Paolo erano muti. La discussione tra loro era legata alla velocità con la quale bevevano il loro vino. Sorseggiando o mandando giù tutto d’un sorso, si raccontavano l’un l’altro le impressioni che immagazzinavano ascoltando questo o qual discorso, questa o quella persona. Vedevano le persone come uccellini che si appoggiavano sul ramo più vicino alla finestra di casa e cantavano, cantavano e cantavano. Cantavano tutti e cantavano sempre. È da questo essere esausti che nacque il rito del silenzio domenicale.
Grazyna, la ragazza che stava al banco nel turno di pomeriggio, aveva appena servito sette birre a quei sette uomini che sembravano non aver mai smesso di parlare al passato del futuro ingabbiato da un presente di assenze e mancanze. Mezze frasi in polacco, italianizzato solo quando i toni si facevano più tranquilli e c’era ordinare da bere. Il discorso doveva essere serio: l’idea di fondo di Solidarność sembrava essere condivisa ma non lo era affatto la linea cattolica del sindacato, né l’elezione di Lech Wałęsa a Capo di Stato.
Grazyna appoggiò sul tavolo sette birre nuove: “Capite perché io penso che il fascismo sia sempre meglio del comunismo…”.
Il più attempato dei sette la guardò: “Ma Grazyna, tu…”
“Nie, tato… pracuję…”. Il tono della ragazza era dolce e amaro mentre raggruppava sul vassoio i vuoti.
Paolo guardò Paolo e sorseggiando trovò in Paolo e Paolo una smorfia di disapprovazione mentre davano fondo al loro bicchiere.
Silenzio.
Poi un altro giro.
“U futuru s’u futtìru!”, si sentì dal banco una voce maschile. Era così chiaro che l’accelerazione del declino non più era una preoccupazione ma un gioco in cui vince chi riconosce i piccoli (per premi piccoli) e grandi (per chi vuole i premi da grandi) dettagli di un quotidiano costellato da certezze immorali ma così calde da farti sentire a casa durante la tempesta che solo un pazzo avrebbe avuto il coraggio di affrontare di petto.
Il tizio in giacca e jeans da svariate centinaia di euro, era accompagnato da una donna che sembrava bellissima nel suo tubino. Come quando l’apparenza si apparta negli angoli più bui della nostra personalità con la speranza di far luce, la donna sembrava bellissima ma aveva uno sguardo buio. I lineamenti del viso erano quasi spariti sotto il cerone. Il furto del futuro era la tragedia di un presente che coniuga l’avere e l’essere in declinazioni affabili solo nel caso in cui non si stia parlando di te. Il gioco di sguardi con l’uomo in giacca aveva solo confermato il rapporto di forza tra i due, già definito dall’incedere di lui che si addentrò nella sala con lei in scia. Un uomo per bene. E come se il bene fosse in offerta al Centro Commerciale nell’ultimo scorso fine settimana, l’uomo sembrava averne fatto scorte e scorte. Lo scarto si nascondeva nell’eyeliner di lei, messo in possa perfettamente.
Paolo appoggiò le labbra al bicchiere. Chiuse gli occhi e non bevve. Paolo, Paolo e Paolo finirono il loro senza troppa fretta ma sapevano bene che era una di quelle storie che non avrebbero permesso a Paolo di bere. Si alzò asciutto ed andò a pisciare. Al suo ritorno fece il suo dovere. Tacere bisognava andare avanti.
Silenzio.
Poi un altro giro.
Ogni tre giri uno era a vetro per tutti. Il mercoledì funzionava così.
Prima che Paolo si alzasse in rispetto dei suoi bisogni fisiologi, Paolo non aveva notato che alle sue spalle c’erano tre tizi interessanti. Cambiò posto. Era lecito farlo. Uno dei due era sicuramente un professore dell’Università per Stranieri. Paolo si ricordò di qualche anno prima, quando quella faccia finì su tutti i giornali grazie alla vincita di un Gratta&Vinci da centomila euro. Uno, nessuno, centomila. Il professore ne aveva due su tre. La chiacchierata a quel tavolo sembrava animata e l’argomentare convinto di ognuno degli ospiti faceva pendere la bilancia del consenso dalla parte di chi aveva parola. Ruotava tutto attorno al principio del Rasoio di Occam, secondo il quale a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire.
“Ma la parità dei fattori implica un giudizio”, sosteneva il professore.
“Ma il giudizio implica delle conoscenze”, lo interruppe quello dei due al tavolo in senso antiorario.
“Ma le conoscenze implicano una crescita personale”, disse il terzo.
“Ma una crescita personale implica l’accettazione di sé stessi”, continuò controgiro il professore.
“Ma l’accettazione di sé stessi implica la definizione dell’uomo staccato dal proprio tempo e dal proprio spazio”
“Ma tempo e spazio implicano la possibilità di considerare nulla ogni cosa che ognuno di noi, qui dentro e lì fuori, sta facendo in questo preciso istante. Ed in questo. Ed in questo…”
Paolo, Paolo, Paolo e Paolo erano al loro tavolo. Ai loro fianchi scorreva il mondo che nessuno dei quattro voleva capire e che ognuno dei quattro cercava in qualche modo di sconvolgere.
Riempirono e ne bevvero un secondo.
Riempirono e ne bevvero un terzo.
Grazyna portò l’ultima bottiglia per oggi. E con lei il conto. Questo mercoledì toccava pagare a Paolo, ché la domenica precedente aveva fatto il compleanno.
In silenzio riempirono ed in silenzio ne bevvero un primo.
Pensarono all’unisono che “È inutile fare con più ciò che si può fare con meno” e finirono quella bottiglia.
Alle 22:00 il paese, la città e la nazione già da qualche ora erano illuminate alla meno peggio. Paolo, Paolo, Paolo e Paolo uscirono dall’osteria e senza salutarsi si persero per le strade che li separavano da casa. Domani sarebbe durato 72 ore.
Un tizio passò sul marciapiede, proprio in mezzo ai quattro appena separati. Non era di quelli che guardano dove mettano i piedi. Una mano sul muro e con l’altra controllò senza troppe speranze la scarpa destra: “Fuck! Italy it’s full of shit…”