L’orrore di Pamela raccontato dall’ex pentito di ‘ndrangheta

L’orrore di Pamela raccontato dall’ex pentito di ‘ndrangheta

Notizia tratta da: corrieredellacalabria

Scontro in aula sulla deposizione del crotonese Salvatore Marino. «Oseghale l’ha fatta a pezzi quando era ancora viva». Ma un altro compagno di cella smentisce la sua versione

«Oseghale mi ha detto che quando ha incominciato a tagliarle un piede, Pamela ha avuto un fremito: era ancora viva e le ha dato una seconda coltellata, al fegato». A parlare è Salvatore Marino, ‘ndranghetista crotonese, fino al 2012 collaboratore di giustizia e per qualche settimana, la scorsa estate, vicino di cella del nigeriano accusato di aver violentato, ucciso e fatto a pezzi il 30 gennaio dello scorso anno a Macerata, Pamela Mastropietro, 18enne di Roma. Ruota intorno alla credibilità dell’ex collaboratore di giustizia («per otto procure sono attendibile», ha ricordato Marino in aula) una parte importante del processo davanti alla corte d’assise di Macerata, perché Oseghale, l’unico responsabile per la procura – ma la famiglia della ragazza uccisa non è convinta che abbia agito da solo – ha ammesso di aver fatto a pezzi Pamela e di averli abbandonati in due trolley, nella zona industriale di Pollenza. «Ma non l’ha violentata e non l’ha uccisa», ha ripetuto anche oggi Simone Matraxia, uno dei due legali del nigeriano. In attesa delle deposizioni dei periti di parte, che avranno un ruolo determinante per capire le cause reali della morte della ragazza, la seconda udienza del processo “certifica” verità opposte. Perché a Marino, ha fatto seguito la testimonianza di Stefano Giardini, che con Oseghale ha condiviso la cella numero 2 del carcere di Ascoli Piceno e che con il nigeriano ha detto di aver avuto un rapporto diretto e confidenziale. Tanto basta per fargli ripetere in aula: «Pamela è morta per un’overdose di eroina e Innocent ha incominciato a sezionarla perché non dava più segni di vita».

Un’udienza lunga oltre 9 ore, con tre brevissime interruzioni, una delle quali chiesta dallo stesso Marino, incalzato dalle domande dei difensori di Innocent Oseghale. Su pochissimi elementi i due principali testimoni ascoltati oggi si sono trovati d’accordo, compreso il rapporto sessuale che Pamela avrebbe avuto col nigeriano. Entrambi hanno riferito di Michela, la moglie dalla quale Oseghale aspettava un secondo figlio, definita da entrambi «gelosa, ossessiva per le continue telefonate al marito, anche video chiamate per avere la certezza che nella casa di via Spalato non ci fossero altre donne». Proprio il timore della reazione della moglie, avrebbe portato il nigeriano a fare a pezzi la sua vittima e a trasportare i resti all’interno di due trolley, caricati in tutta fretta su un taxi. «Ma Michela chiamò anche quel giorno – ha riferito Marino – e Oseghale pur di tornare velocemente indietro lasciò le valigie in un posto diverso da quello che aveva pensato», nei pressi di alcune cascatelle d’acqua, a Sferzacosta. Lucidi entrambi nel raccontare anche i dettagli. Salvatore Marino ha riferito che Oseghale gli parlò della presenza di alcuni nei sulla schiena di Pamela e della carnagione chiara del corpo della ragazza, Stefano Giardini ha raccontato che in casa quel pomeriggio il nigeriano le fece ascoltare della musica. Entrambi decisi a confermare alla corte di essere stati gli unici confidenti in carcere del nigeriano: «L’ho aggredito appena l’ho visto, poi un mio amico e compagno di cella (Stefano Re, ndr.) fece da tramite e i rapporti cambiarono, tanto che con lui prendevo ogni giorno il caffè», ha deposto Marino. «Parlavo inglese e ci capivamo, lui mi ha dato un manoscritto sulla vicenda e io l’ho aiutato a tradurlo in italiano», è la versione di Giardini.

Da una parte Salvatore Marino, ex “sgarrista di sangue” appartenente ai clan Vrenna-Bonaventura della ‘ndrangheta crotonese; dall’altra Stefano Giardini, anconetano, con un passato nella guardia di finanza e in carcere, dopo il congedo, per reati finanziari, le cui dichiarazioni sono state sostenute da altri due compagni di cella, il sambenedettese Stefano Re e l’albanese Jentian Xhafa. Marino e Giardini che, a loro detta, avevano lo stesso soprannome: “lo zio”, «perché i più anziani e disponibili verso i compagni di cella, Oseghale compreso». Da una parte Salvatore Marino, che preferisce esprimersi in crotonese, dall’altra Stefano Giardini, che con Oseghale parlava in inglese e lo aiutava a esprimersi in italiano. Marino, che sta cercando di essere riammesso nel programma di protezione dei collaboratori di giustizia; Giardini, che vorrebbe scrivere un libro sulla vicenda di Pamela Mastropietro, raccogliendo le confidenze di Oseghale, e che del suo ex compagno di cella ha detto che «prometteva regali a tutti». Due testimonianze contrapposte e comunque dettagliate al vaglio della corte d’assise, che ruotano anche intorno a quanto accadeva nelle due celle vicine del carcere di Marino del Tronto, dove secondo Giardini circolavano i quotidiani («mai visti giornali», aveva detto Marino), i detenuti potevano bere il caffè (lo ha riferito Marino) e del caso di Pamela se n’era discusso sia davanti alla televisione che c’era in cella, sia nel corso di un «dibattimento processuale» al quale – secondo quanto ha riferito Giardini – Innocent Oseghale è stato sottoposto dai suoi compagni di cella appena entrato in carcere. La prossima udienza, la terza, è in programma mercoledì prossimo, 13 marzo.

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