Maria, pentita di ‘ndrangheta, fuggita in Germania: “In Italia non ero al sicuro”

Maria, pentita di ‘ndrangheta, fuggita in Germania: “In Italia non ero al sicuro”

Notizia tratta da: corriere

Da Rossano, in Calabria, è partita una telefona verso la Germania. «Ci confermi che davvero non vai a testimoniare?». A ricevere la telefonata è stata Maria Vallonearanci, la pentita di ’ndrangheta che in chiusura della scorsa puntata diceva: «Il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia non mi ha garantito la tutela dei figli minori e un nome di copertura. Se così stanno le cose io ai processi non mi presento». 

Maria, un caso in Germania

È diventata un caso in Germania, al punto che Rtl (la principale emittente televisiva) e il settimanale Stern le hanno dedicano un approfondimento di quasi quaranta minuti. Perché Maria ha rifiutato il programma di protezione per i pentiti in Italia e attualmente si nasconde nei land tedeschi. Il marito di Maria (ora ex marito) fa parte del clan Acri- Morfò. Lo ha denunciato lei stessa ai magistrati (insieme ad altri capindrina) svelando i traffici illeciti tra Calabria e Germania. Più precisamente, Maria ha contribuito alla scoperta di un «Inter Club» a Fellbach, vicino Stoccarda, che fungeva da deposito di droga e banconote false oltre che da sede per i summit di mafia. Così è stato possibile ricostruire anche la rete di ristoratori italiani che nel Baden Wuttemberg erano costretti a comprare olio, vino, frutta, pesce e lavorati per la pizza solo da «mamma ‘ndrangheta». Affari a cui la stessa Maria prendeva parte con un ruolo ben preciso: punire quelli che non pagavano il pizzo. «Mi chiesero di incendiare l’auto a un ristoratore che nel Baden non voleva pagare» ci conferma. 

Nessuno più di lei era adatto per quel ruolo: nata in Germania, a Backnang, e con un marito dal nome pesante: Natale Acri, capobastone del clan Acri-Morfò di Rossano, in provincia di Cosenza. Dopo il pentimento le sue dichiarazioni sono finite in due importanti processi come «Stop» e «Stige», e ha testimoniato contro 28 affiliati. Complessivamente, hanno portato in carcere circa duecento persone, tra cui politici locali e imprenditori. Poi qualcosa non ha funzionato e quel qualcosa è il programma di protezione che aveva sottoscritto con il Servizio Centrale. «I miei figli non potevano andare a scuola perché c’erano problemi con i nomi di copertura; a Lucca sono stata trasferita in un appartamento dove scopro che il mio vicino di casa era un avvocato del mio stesso paese, Rossano, nipote di avvocati che la ‘ndrina aveva a libro paga; nel ritirare la pensione di invalidità di mia figlia (nella località segreta) scopro che all’ufficio postale di Rossano conoscevano dove e in che giorno la riscuotevo; quando mia figlia ha avuto bisogno di alcuni interventi chirurgici non ho potuto chiedere assistenza all’Asl perché i documenti di copertura che mi fornirono non lo consentivano… Presa dalla paura, ho rinunciato al programma e mi sono nascosta in Germania, prima dai miei genitori a Winnenden e poi in altri land». 

Le falle della copertura in Italia

L’elenco delle cose incredibili che capitano sotto copertura ce lo fa durante una videochiamata. È in un’auto e si sposta di frequente. «Qui rischio tutte le mattine, sono una morta che cammina. Dal carcere di Milano dove è recluso Tonino Palmieri (il boss che gestiva i traffici illeciti attraverso l’«Inter club» di Fellbach) mi sono arrivate delle lettere di minaccia. Dice che se mi presento ai processi non vedrò i miei figli crescere». Attualmente è la polizia tedesca (IKA) a garantirle una qualche forma di protezione. «Lo fanno in via ufficiosa, non potrebbero e non sono obbligati» spiega Maria. 
Al telefono ci conferma anche che dopo la sua denuncia alla stampa le hanno garantito un monitoraggio almeno fino a quando dall’Italia non arriveranno notizie sul tipo di tutela che meriti. 

Il collaboratore: «Quattro anni e mezzo allucinanti»

Durante l’intervista a Maria ci arriva una telefonata da parte di un collaboratore di giustizia. E’ il primo pentito del clan Zagaria, quello che ha testimoniato sui rapporti tra i fratelli dell’onorevole Luigi Cesaro di Forza Italia e il clan dei Casalesi. Ha saputo della nostra inchiesta e ci tiene a dire la sua a costo di essere espulso dal programma di protezione (i collaboratori non possono avere contatti con gli organi di informazione). «Non mi interessa, sono quattro anni e mezzo che vivo una situazione allucinante. Mi hanno portato in una località ad alto rischio, forse mi vogliono far ammazzare. Già in passato un carabiniere, che adesso è stato arrestato, mi accusò falsamente di evasione». Ci riferisce che la compagna ha da poco partorito e ha avuto problemi con i bambini. «E’ un macello, non riescono a garantirmi l’assistenza sanitaria. Io ero consapevole di dover fare una vita disgraziata ma i miei figli non c’entrano. Se tornassi indietro non rifarei mai più questo passo. Piuttosto prenderei una fune e mi impiccherei in cella». 

«La bomba a orologeria»

A Roma, in un angolo di piazza Venezia incontriamo don Marcello Cozzi dell’associazione «Libera contro le mafie». «Lo dissi già due anni fa quando fui audito in Commissione parlamentare antimafia: “Attenzione, corriamo il rischio di avere davanti a noi una specie di bomba a orologeria”» commenta. In vent’anni ha assistito più di cento collaboratori di giustizia. «La centesima pecorella», come li chiama nel suo libro Ho incontrato Caino, è stata Gaspare Spatuzza, l’omicida di Pino Puglisi e responsabile della stagione delle stragi. «Le criticità di questi programmi di protezione sono oggettivamente tante, anche se tutti dobbiamo riconoscere il grande merito che hanno avuto nel far cambiare vita a mafiosi incalliti». Racconta casi estremi. Come quello di una testimone di giustizia che dopo il cambio temporaneo delle generalità non è più riuscita a riavere il proprio nome e cognome perché al Viminale hanno perso la documentazione. Oppure la storia di un pentito che per essere andato al Pronto Soccorso in preda a un forte mal di denti è stato scoperto: la tessera sanitaria di copertura non risultava da nessuna parte. Così come, in presenza di bambini, il collaboratore non ha la possibilità di presentare la storia pediatrica del figlio in quanto viene cancellata con la nuova identità.

Il procuratore nazionale antimafia

«Seguo il caso paradossale di un altro pentito che chiameremo Mario. Dopo essere uscito dal programma di protezione non può vivere nella stessa provincia della moglie e dei figli. Loro risultano ancora sotto protezione ma questa gli fu accordata proprio in virtù del pentimento dello stesso Mario». È Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia a confermare l’inadeguatezza del programma di protezione anche sulla scorta delle «doglianze che arrivano da tutte le procure distrettuali». Ed ecco l’elenco degli aspetti da rivedere secondo il procuratore: «La prima difficoltà riguarda le generalità di copertura: devono essere mantenute o nel corso del tempo si dovranno modificare? Il collaboratore prima o poi le perderà o tornerà alle generalità originarie? Quindi sarà costretto a manifestare chi è realmente? Con quali rischi?». 

L’altro problema riguarda gli uffici che se ne devono occupare. «Deve essere un terzo estraneo? In questo caso siamo sicuri che riesca a garantire la segretezza?». Allo stesso tempo, secondo De Raho, ci deve essere un ampliamento della sfera territoriale dove andare a pescare le abitazioni di copertura, anche in considerazione del numero elevato di collaboratori e parenti (quasi seimila), il più alto di sempre che rende complicata l’applicazione della legge sui pentiti: «A volte vengono scelti comuni il cui numero di abitanti è talmente basso che è implicita l’esposizione del collaboratore e della sua famiglia. Oppure non si tiene nella dovuta considerazione la presenza in quel posto di altri affiliati ai clan o addirittura di rivali». Suggerisce un ripensamento delle misure di protezione anche a seguito di quanto accaduto a Marcello Bruzzese: «È stato ucciso la notte di Natale, è un modo tipico di operare della ‘ndrangheta che ha voluto punire non solo Bruzzese ma mandare un messaggio a tutti i collaboratori di giustizia».

Antonio Crispino

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