Tredicenne abusata per anni, condannato il “branco” di Melito
Notizia tratta da: repubblica
REGGIO CALABRIA – C’è un branco che per oltre due anni ha abusato di una ragazzina appena tredicenne, costringendola al silenzio con ricatti e minacce. Lo ha affermato con forza il Tribunale di Reggio Calabria ha condannato sei degli otto imputati del processo “Ricatto”, che ha svelato le sevizie e gli abusi subiti per anni da una ragazzina di Melito.
Sebbene i giudici non abbiano acconsentito alle richiese del pm Ponzetta, in alcuni casi infliggendo meno della metà degli anni di carcere invocati per i membri del “branco”, per tutti sono arrivate condanne severe. La pena più alta va a quello che la ragazzina credeva il suo fidanzato e l’ha “ceduta al branco”, Davide Schimizzi, condannato a 9 anni e 6 mesi a fronte dei 16 anni e sei mesi invocati dalla pubblica accusa. È invece di otto anni e due mesi, al posto dei 15 chiesti dal pm, la pena inflitta a Giovanni Iamonte, il rampollo dei clan che per anni ha abusato della ragazzina, decidendo anche a quale dei sodali dovesse essere ‘prestata’. Sei anni e due mesi, al posto dei 12 invocati sono andati a Michele Nucera, mentre è di sette anni la condanna inflitta ad Antonio Virduci, per il quale erano stati chiesti 10 anni e 10 mesi. È stato invece condannato a 6 anni Lorenzo Tripodi, per il quale era stata invocata una condanna a 8 anni, mentre è di soli 10 mesi la pena inflitta a Domenico Mario Pitasi, l’unico non accusato di reati sessuali, che il pm aveva chiesto di condannare a 3 anni e 2 mesi.
Assolti Pasquale Principato e Daniele Benedetto, per i quali la pubblica accusa aveva chiesto pene rispettivamente di 8 e 7 anni. Fatta eccezione per Schimizzi e Iamonte, che potranno scontare il resto della pena ai domiciliari, per tutti gli imputati ancora detenuti il Tribunale ha disposto l’immediata scarcerazione.
Secondo quanto emerso dall’inchiesta e confermato dal dibattimento, il branco ha costretto la ragazzina a subire per due anni abusi di ogni genere. Forti del terrore che evoca la famiglia del loro giovane capo, Giovanni Iamonte, figlio del boss Remingo, per mesi l’hanno utilizzata come una cosa, costretta a soddisfare le voglie di tutti anche contemporaneamente. A irretirla era stato quello che credeva il suo fidanzato, che poi l’ha ceduta prima a Iamonte e poi agli altri. Quando tentava di ribellarsi, iniziavano le minacce. Se non avesse acconsentito a quei rapporti, il gruppo avrebbe diffuso le foto che la ritraevano a letto con loro. In paese, sarebbe diventata una ‘disonoratà e quel marchio di infamia l’avrebbe resa una reietta, anche per la sua stessa famiglia. Una prospettiva in grado di spezzare ogni velleità di ribellione nella ragazza, nel giro di pochi mesi completamente soggiogata dal branco, che ne disponeva come “roba propria”.
Per anni, di quell’inferno non ne ha parlato con nessuno. Solo grazie ad un tema, in cui vagamente accennava alle sue sofferenze, finito in mano alla madre, la ragazzina ha iniziato a parlare del suo incubo, che dopo qualche mese è stato portato all’attenzione dei carabinieri. Da allora, nonostante il muro di omertà, in pochi mesi sono stati identificati i componenti del branco e trovare riscontri alla vicenda che, piano piano e con difficoltà, la ragazzina ha progressivamente raccontato in dettaglio. Dopo, per lei è iniziata una nuova vita, lontana dalla Calabria, dove ha potuto ricominciare senza rivivere quotidianamente l’ombra delle violenze subite.