San Rocco a Gioiosa Ionica: una festa che percuote e disorienta
Ad una settimana dall’ennesimo successo popolare della Festa di San Rocco a Gioiosa Ionica, smorzata l’euforia caotica e vorticosa dei giorni di celebrazioni e deglutiti alcuni accenni polemici di imprecisata finalità, può essere utile e proficuo provare a ragionare collettivamente sull’essenza profonda della Festa stessa, intrecciandola con la rappresentazione identitaria che i gioiosani affidano ai festeggiamenti patronali e con le relative resistenze opposte dall’esterno.
La mia opinione, che ho manifestato ed esplicitato in più di un’occasione, è che il San Rocco di Gioiosa Ionica è un unicum specialissimo ed originalissimo, un’eccedenza rispetto ad alcuni canoni concordati o imposti, quasi una mossa del cavallo a stento tollerata e che sollecita immediati arrocchi difensivi e conservativi. La processione è quindi pagana, volgare, licenziosa, esibizionista, consumistica: aggettivi del nostro tempo, attributi della nostra quotidianità, scagliati contro la Festa di San Rocco semplicemente perché evento fuori dal proprio controllo esclusivo (sociale, culturale, economico).
C’è, nella festa gioiosana, un’anima popolare – di genti di estrazione plurale, di devozione umilissima e quasi primitiva, di organizzazione ed intrapresa umane, di micro-economia cittadina, di antropologìa paesana, di spirito comunitario – che continua a percuotere e a disorientare soprattutto chi si ostina ad incasellare tutto in spazi pre-ordinati, chi risponde talvolta in modo anche inconsapevole a poteri e istituzioni meccanicamente orientati. Vale per la struttura puramente ecclesiastica, non sempre disponibile nella comprensione di una Festa che è molto di più di una semplice ricorrenza religiosa e di fede; vale per parti anche significative di opinione pubblica, oggi travestite da ricerca giornalistica o da indagine storica, abili nel maneggiare usi e costumi come corpi contundenti, tutte assorte nel tentativo ricorrente di svilire un evento che è proprio per sua natura.
Nelle ultime settimane e negli ultimi giorni, sulla scia di un tentativo più o meno strisciante che si protrae da un tempo assai più esteso, abbiamo assistito all’azione di contenimento dell’eccedenza e dell’originalità di San Rocco – azione che, di fatto, è un rivendicato sforzo di normalizzazione e di disciplinamento di una festa che appartiene a un popolo e quindi non può essere oggetto di immediato controllo dall’alto o dall’esterno.
Da una parte, la Chiesa-Potere o Chiesa-Istituzione che insiste ossessivamente nel dettare modalità sempre più restrittive sull’espressione del ballo votivo, sul suono dei tamburi, sui tempi della processione: come se un manifesto affisso sui muri di Gioiosa Ionica potesse determinare l’esatta dimensione spirituale di riti personali e collettivi che appartengono alla sensibilità di ognuno, come se impedire in alcuni tratti il suono dei tamburi o esigere il rientro del Santo entro una determinata ora potesse in qualche modo “ripulire” una processione egoisticamente etichettata come poco cristiana. Qui c’è uno scarto difficilmente colmabile con gli atteggiamenti ecclesiastici votati al controllo e alla gerarchizzazione: chi e perché ha stabilito che la devozione popolare non può esprimersi in forme ludiche come il percuotere un tamburo o lo sfogarsi in una tarantella anche approssimativa? Chi e perché ha stabilito che l’organizzazione di una grande festa patronale, caratterizzata anche da un ritorno economico importante, è in qualche modo in contraddizione con l’espressione di un sentimento religioso? Insisto: San Rocco non appartiene solo alla comunità di fedeli organizzati nella chiesa cattolica, quei limiti e quei confini li ha sovrastati da tempo, la festa patronale di Gioiosa Ionica appartiene di fatto alle persone in carne ed ossa che in quella festa rinnovano la propria identità e la propria consapevolezza di comunità.
Dall’altra parte, sempre nell’ottica di un assorbimento dell’anomalìa San Rocco, si palesa con tempi e modalità comunque embrionali una reazione di certa opinione pubblica e di certa comunicazione, ansiose di poter individuare l’elemento di contraddizione in grado di recuperare l’eterodossia ad una qualche forma di canone. Qui entra in campo l’uso disinvolto delle tradizioni, parola e concetto facilmente agibile anche a uso e consumo proprio, piegabile in modo assai flessibile a esigenze mutevoli e inedite. In modo esemplificativo, la polemica ultima sui tamburi che non appartengono alla storia della Festa e che quindi sono un’autentica deviazione di una tradizione appositamente sacralizzata, polemica riproposta a più riprese anche da alcuni organi di stampa, è sbagliata nel merito dei contenuti e nell’utilità di fondo, non riesce proprio a cogliere nel segno.
In primo luogo, ragionando in termini sostanziali, una tradizione non è mai data per sempre, non può essere cristallizzata in una sua fissità sacrale; al contrario, la tradizione è fenomeno processuale in continuo divenire, persiste nel trasformarsi in sincrono con i cambiamenti sociali e culturali di una società: su questo, in relazione proprio alla Festa di San Rocco, ha scritto parole di inequivocabile chiarezza uno studioso di livello assoluto come Vito Teti (vedi le righe sotto riportate in foto, tratte da Terra Inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale – Rubbettino Editore). Quindi, se è vero che tanti anni fa i tamburi non avevano l’importanza e la ridondanza che hanno oggi (per quanto vi sono comunque testimonianze scritte, orali e visive della loro antichissima presenza), è altrettanto significativo comprendere come i tamburi stessi (oggi assai più numerosi di un tempo) siano diventati nel corso dei decenni una forma di manifestazione della propria devozione di fede tanto quanto un richiamo antropologico fortissimo, riconfigurando un’auto-rappresentazione di comunità che sa essere religiosa e laica al tempo stesso.
In seconda battuta, provando ad abbracciare un punto di vista più finalistico, un orizzonte di utilità immediata, ci facciamo pervadere da un interrogativo molto semplice: è davvero così decisivo nell’analisi della Festa di San Rocco – manifestazione che si impone per l’articolazione e la complessità della sua anima popolare – sapere con assoluta certezza l’anno o l’occasione in cui si imposero i tamburi e si smarrirono invece altri strumenti antichi come la pipita o la zampogna? Vi è realmente bisogno di usare toni inutilmente polemici su una questione di evoluzione degli usi popolari che è forse banale tanto quanto lo scorrere puntuale del tempo? Non è probabilmente più significativo, anche ai fini di una salutare ricerca storica e antropologica, comprendere fino in fondo l’anomalìa di partecipazione popolare rappresentata dalla Festa di San Rocco, l’ansia di coinvolgimento e di consapevolezza di tanti pezzi di società, il suo nesso con il modo di essere e di fare di un’umanità varia?
Concludo con un dubbio che mi ha assalito prima di riportare in questa sede le mie riflessioni, in sintonìa con la mia frequentazione discreta e limitata dei riti e delle attività della settimana di San Rocco: il dubbio che scrivere ancora della festa patronale di Gioiosa Ionica, in dialettica aperta con le contestazioni che a vario titolo le vengono mosse, possa apparire ripetitivo, superfluo, quasi ai limiti estremi dello stucchevole. I miei interrogativi e le mie incertezze le ho superate concentrandomi sull’importanza che questa Festa continua ad avere per la comunità alla quale visceralmente appartengo: il rapporto fra le celebrazioni di San Rocco e lo sviluppo di Gioiosa Ionica è un rapporto di quasi equivalenza, ovvero se cresce la prima puntualmente cresce anche la seconda, se si consolida l’una – come avvenuto negli ultimi anni – si afferma anche l’altra. Per questo, io credo e rivendico, è bene continuarne a scrivere.