Per sempre restano solo i diamanti di una fortunata pubblicità. Neppure il giuramento a un clan mafioso ha il potere dell’eternità. E questo nonostante la tesi, esplicitata più volte in convegni e atti giudiziari dal capo della Dda Ilda Boccassini, secondo cui dalla ‘ndrangheta si può uscire solo in due modi: «Collaborando con lo Stato o con la morte». La pensano così i giudici della quinta sezione penale della corte d’Appello che nel novembre scorso hanno assolto dall’accusa di associazione mafiosa (416 bis) il calabrese Agostino Catanzariti, il figlio Saverio, e Flavio Scarcella, responsabile di una società di security. I tre erano stati condannati in primo grado dal gup Andrea Ghinetti per mafia e altri reati. In Appello però hanno retto solo le accuse per i singoli crimini.
Alla base (operazione Platino 2014 contro la cosca Barbaro-Papalia) c’era appunto la presunta appartenenza dei Catanzariti al clan di Buccinasco e Corsico. Ad indicare la «mafiosità» dei Catanzariti c’era il trascorso criminale del vecchio Agostino, coinvolto nelle inchieste sui sequestri di persona e sulla mafia negli anni 70 e 80. Una volta fuori avrebbe proseguito con i suoi «metodi mafiosi» per mettere a segno estorsioni e minacce. Scrivono i giudici d’Appello: «Il pm — e il gip in totale adesione a tal ricostruzione — assume infatti che “le vicende giudiziarie di Catanzariti attestano che il vincolo di ‘ndrangheta è a vita (salvo dissociazioni) e che anche un prolungato stato di detenzione non incide certo sulla sua permanenza». Ma per i magistrati di secondo grado si tratta di un’affermazione che «seppure confortata da notevole giurisprudenza deve essere ancorata a indici di una certa consistenza. Secondo una recentissima sentenza della Cassazione (45065/14) a fronte dello stato detentivo perdurante da molti anni e senza soluzione di continuità (…) la configurabilità della partecipazione al delitto di associazione per delinquere impone una rigorosa verifica circa la permanenza di un contributo oggettivamente apprezzabile alla vita ed all’organizzazione stessa».
In più, per i giudici i fatti commessi dal figlio di Catanzariti e da Scarcella (difeso dall’avvocato Jacopo Cappetta) non possono essere «trasportati» per una sorta di «proprietà transitiva» all’interno del clan Barbaro-Papalia, a cui «pacificamente non potevano appartenere negli anni 70 e 80».
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