La 13enne di Melito raccontò gli abusi in un tema ma la madre li coprì

La 13enne di Melito raccontò gli abusi in un tema ma la madre li coprì

L’inferno descritto dalla ragazza: “Dopo questi ricatti non avevo più stima di me stessa”. Ma la madre dalle intercettazioni sembra solo preoccupata dell’opinione del paese

“Tanto non cambierà niente, perché loro hanno i soldi e non paga nessuno, stai tranquillo, sai chi pagherà? Quelli che hanno meno soldi. E quelli che ce li hanno non pagheranno”. Nessuna fiducia nelle istituzioni, nella giustizia, in un riscatto. Nessuna speranza di un futuro migliore. C’è solo rassegnazione a un destino da schiava nelle parole della madre della ragazzina di tredici anni di Melito Porto Salvo, per anni violentata e ricattata da sette e più uomini molto più grandi di lei. Una vicenda orribile che ha portato all’arresto di otto persone.
Un inferno che la madre ha scoperto per caso, dopo aver trovato la brutta copia di un tema, in cui la ragazzina racconta la sua rabbia per essere stata lasciata sola da due genitori “troppo impegnati con i loro compagni, con le loro cose”. Ma non rivela nulla di come quella solitudine si sia trasformata in un limbo in cui ha incontrato chi l’ha trascinata all’inferno. Quello che la spinge a dire alla psicologa del tribunale “dopo questi ricatti, dopo queste cose io non avevo più stima di me stessa completamente, perché io, in questi momenti, avevo pure momenti.. queste crisi, queste cose.. dicevo sempre sono una merda, cose così”. In quel periodo – spiega – si tagliava  gambe e braccia con i coltelli, c’erano giorni in cui non riusciva a mangiare o a smettere di piangere, era inutilmente aggressiva e indisponente con tutti, amici, compagni, professori. Si sentiva una cosa, vuota, inutile.

Anni di ricatti e abusi, l’hanno indotta a quella che il giudice definisce “recalcitrante rassegnazione” a una quotidiana violenza. Anni in cui foto mandate per gioco sono divenute strumento di ricatto e violenza psicologica, l’hanno portata a considerare quasi scontato l’abuso. Così, quando quello che lei credeva il suo fidanzato ma la usava come un pappone, passava a prenderla e si dirigeva a casa di questo o quell’amico, l’adolescente sapeva già che sarebbe stata “usata” da tutti. Il figlio del boss, quello del maresciallo, il fratello del poliziotto con il padre vigilantes in servizio al palazzo di giustizia, il cugino, il parente, l’amico, quello chiamato per portare le sigarette. “Lo immaginavo io – spiega – perché era naturale, come le altre volte che erano successe prima, era naturale, cioè non pensavo ‘andiamo a farci una chiacchierata’, era logico”. Ma non meno doloroso.
Lo aveva confidato a una cugina, qualche amica. Mai ai genitori. Solo quel tema, le ha dato l’opportunità di aprirsi come un fiume in piena con la madre. Lei, che inizialmente stizzita l’apostrofa con un “belle cose che hai scritto di noi”, di fronte alla verità che non ha saputo vedere, a quelle assenze da casa della ragazzina su cui non ha voluto indagare, non sa che fare. Informa solo i più stretti familiari. Il cognato, cui chiede consiglio, quindi l’ex marito. È lui a prendere la situazione in mano, è lui a parlare con la sua bambina durante un lungo giro in auto, durante il quale prende appunti, che poi porta – disperato – ai carabinieri. Da loro torna più volte, perché vuole che le violenze sulla sua bambina siano punite, i responsabili perseguiti, anche se già da mesi è riuscito a strappare una tregua, affrontandoli personalmente. Ma l’ex moglie frena. Dice che la ragazzina non è pronta. Anche ai professori che sono venuti a conoscenza della cosa, chiede di mantenere il più stretto riserbo, di non informare il consiglio di classe.

Per lei, ex dipendente, forse ex amante del boss Iamonte, il nemico non è quel “branco” che ha trattato la sua bambina come una cosa, buona solo per soddisfare voglie e appetiti. Ormai, il danno è fatto.  Il problema è che la cosa si sappia in giro, che gli abusi subiti dalla figlia diventino di dominio pubblico. “Poi ce ne dobbiamo andare dal paese”. E loro, magistrati, investigatori – dice, intercettata, al telefono – “si vogliono prendere i meriti di andare con le sirene, come al solito per prendersi i meriti sulla pelle degli altri? Quanto meno devono avvisare, o no? Sulla pelle nostra, perché i problemi ce li abbiamo noi, non loro”. Nella distanza fra la donna e lo Stato, rimane una sedicenne indotta a credere di non valere niente, di non essere niente, ma che adesso – promette su facebook – vuole solo andare oltre.

 
Fonte : www.repubblica.it

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