La redazione di Ciavula, in merito alla polemica in atto sulle vignette di Charlie Hebdo sul terremoto nel Centro Italia, fa propria la posizione espressa oggi da Deborah Dirani su “L’HUFFINGTON POST”, che ripubblichiamo:
Si fa presto ad essere tutti Charlie quando i Charlie non li conosciamo, quando scopriamo che esistono quando in realtà non esistono più. Quando una coppia di invasati ne ha fatto strage perché si ostinavano a non avere rispetto di niente: di Dio, della patria, dei vivi e dei morti. Non ci vuole niente a essere solidale con chi è vittima della più indiscutibile delle ingiustizie e ancor meno di niente ci vuole ad esserlo quando la vittima è tale a causa di un ideale estremo di libertà.
Eh. Ma oggi, oggi che a finire “percul…” siamo noi coi nostri 292 morti di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto? Oggi siamo ancora tutti Charlie? Riusciamo a esserlo nonostante il cattivo gusto di una vignetta truculenta in cui questi 292 morti sono il ragù di una lasagna?
Ammetto che io per prima, alla vista di quel disegnino ho “sacramentato” in francese per una trentina di secondi, rispolverando il mio repertorio di liceale con un 8 in pagella e una propensione all’apprendere le parolacce in lingua straniera. Poi… Poi mi è toccato ammettere che la satira, quella estrema praticata dai Charlie, non guarda in faccia a nessuno. Non ai suoi morti, figurarsi a quelli degli altri. La satira non necessita di buongusto. La satira è urticante per sua stessa natura e la vignetta di oggi è fastidiosa come un mazzetto di ortiche nelle mutande. Lo è perché quei 292 morti sono vittime di speculazioni edilizie, di avidità e incuria. Lo è perché l’unica morte che siamo disposti ad accettare, con dolore ma con un filo di ragionevolezza, è quella che naturalmente ci strappa dalla vita quando siamo ormai troppo vecchi per viverla. Tutto il resto è ingiusto e ci manda in bestia.
Affondare il coltello nella piaga del nostro dolore, mentre siamo ancora qui intenti a capire in che modo sia possibile affrontarlo è piuttosto squallido, è vero, ma è il mestiere di Charlie Hebdo che, ancora una volta, lo ha fatto bene. Essere oggi meno Charlie di ieri è comprensibile ma ipocrita. Perché, scusate, sentirsi Charlie quando a finire attaccati sono gli arabi va bene e quando lo siamo noi, invece no? E chi l’ha detto? Se vogliamo la satira, se la vogliamo libera, se vogliamo le matite affilate contro Allah e i suoi figli dobbiamo essere disposti ad accettare che la punta venga fatta anche su di noi, sulle nostre “vergogne” e sui nostri morti.
Non esiste una satira giusta e difendibile e una che non lo è. Le regole che la muovono sono sempre le stesse, è solo il bersaglio che cambia. Se oggi siamo meno Charlie di ieri siamo un po’ come i bambini che, in cortile, si prendono su il pallone e tornano a casa perché hanno sbagliato il rigore.
Capisco che sia difficile mantenersi saldi nella difesa della libertà di satira. Lo capisco bene. Capisco pure che quei parigini là potevano risparmiarsela, che magari le lasagne anche no, grazie. Ma la verità è che hanno fatto un ottimo lavoro e per questo siamo così arrabbiati. Io per prima.
La libertà ha un prezzo e oggi Charlie non ci fa sconti. Ci sbatte sul muso che è troppo comodo ridere degli altri, anche delle tragedie degli altri, dei loro simulacri e dei loro caftani. Se la vogliamo mantenere questa libertà dobbiamo essere pronti a pagarne il prezzo a nostra volta. Che non significa farsi una risata su una lasagna di carne e sangue. La satira del resto non vuole fare ridere, vuole casomai far riflettere o fare indignare. La satira non ha rispetto di Dio e dei suoi figli, vivi o morti che siano. I nostri 292 morti di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto non sono diversi da altri morti sui quali i vignettisti parigini si sono fatti la punta delle matite.
O meglio: i nostri 292 morti hanno qualcosa di diverso per noi, perché sono i nostri, perché sono le vittime di un malcostume speculativo che ben conosciamo. Noi non smetteremo di piangerli perché una redazione di ragazzacci (sulla cui umana sensibilità non ho alcun dubbio) li ha strapazzati in modo disgustoso.
Se fossimo coerenti non smetteremmo neanche di essere tutti Charlie. Ora, ammetto: io Charlie non lo ero prima e non lo sono ora, ma sono un’operaia dell’informazione, una che lavora con la carta e la penna e, proprio per questo, con lo stomaco in rivolta e un diavolo per capello, dico: “Bravo Charlie”.