BOVALINO: R.I.C.A. RIMEMBRANZE DI UN PERDUTO PASSATO INDUSTRIALE
A distanza di oltre un quarantennio dalla chiusura del vecchio e glorioso opificio bovalinese, si torna a parlare ancora di R.I.C.A. La tematica viene “ripresa” in maniera alquanto inusuale, e l’acronimo R.I.C.A. ritorna prepotentemente dal passato. Tutto ciò, probabilmente, si concretizza grazie al recente progetto filmico omonimo dell’artista Bruno Panuzzo (che a dirla tutta, ha poco a che fare con le tematiche della vecchia struttura industriale, eccetto, che per le opportune localizzazioni geografiche). Da qui iniziano ad innescarsi nuovamente discussioni, polemiche e chiacchere da bar in relazione ad una tematica ancora non del tutto sopita nel tempo: l’industrializzazione della Locride.
Le parole, si sa, hanno la grande peculiarità di percorrere velocemente spazzi e tempi e, volente o nolente, giungono all’orecchio di chi vi scrive. Il rievocare atmosfere ed occasioni di sviluppo, ormai perdute per sempre, suscita ancora, a distanza di tanti anni, emozioni e sensazioni che parevano estinte. Oltre ai ricordi, che hanno segnato la gioventù del sottoscritto, riemergono segnali inequivocabili di chiare occasioni di riscatto industriale, che Bovalino e la Locride non hanno saputo cogliere.
Nel percorrere a ritroso i meandri del tempo, ed effettuando opportune ricerche, si scopre che la R.I.C.A. fu edificata nel lontano 1946. Codesta “grande avventura industriale”, che si concretizzava nell’allora dinamica Bovalino, nacque dall’estro di tre coraggiosi uomini. Tali persone, mosse dalla celebre volontà di riscatto erano: il dottor Pasquale De Domenico, il Geometra Giovanni Muscatello ed il Cavaliere Antonio Speziali. Codesta triade riuscì, in poco tempo, a mandare a regime un grosso ed imponente sistema industriale, che per l’epoca rappresentava un grande punto di svolta.
La R.I.C.A. si occupava prevalentemente di raffinare l’olio d’oliva. Furono introdotti, dal “piccolo” stabilimento bovalinese, metodi di raffinazione all’avanguardia. Tali tecniche, unitamente alla bontà del prodotto, garantivano al complesso industriale una vasta e qualificata clientela a livello nazionale. L’olio, raffinato negli stabilimenti R.I.C.A. di Bovalino, veniva impiegato in ambito alimentare e nella cosmesi. Come ogni favola però, anche l’avvincente storia della R.I.C.A. giunge purtroppo alla fine. Dopo aver dato lavoro a molti padri di famiglia, garantendo loro dignità e benessere economico, l’opificio chiuse i battenti negli anni settanta del secolo scorso. Con la chiusura dello stabilimento si dissolse definitivamente la chimera legata al settore della raffinazione. Questo mio intervento, non ha pretesa d’apparire come un commento nostalgico o sentimentale, legato ad un passato ormai definitivamente archiviato, ma s’incarica di far sorgere, oggi, degli interrogativi. Cosa è mancato a Bovalino ed alla Locride per spingere al decollo tale settore? Credo vivamente, che codesta affermazione vada ad innescare a sua volta ulteriori polemiche: attribuendo e “spalmando” le responsabilità del caso su diversi fronti. Si comincia dalle cattive gestioni, inerenti i finanziamenti per lo sviluppo economico – industriale; si passa poi per l’incapacità, di certi imprenditori, nell’ amministrare le esigue strutture industriali presenti; si giunge infine al deleterio apporto della ndrangheta ed alla “velata” volontà dello Stato nell’ ostacolare uno sviluppo industriale al Sud Italia.
Oggi ci ritroviamo ad utilizzare i se ed i ma, senza capire pienamente quali sarebbero potute essere le verità. Il problema di base permane, e si esplica ancor ‘oggi, nell’incapacità calabra (fatta eccezione per circoscritte e valide realtà) nel creare industria e quindi occupazione. Molte grandi strutture industriali sono state soffocate dal boicottaggio locale; dalla presenza della criminalità organizzata e dal qualunquismo dello Stato. Spesso è accaduto, che alcune menti grette abbiano incoraggiato disordini, contestazioni, sabotaggi in senno alla manovalanza aziendale, con il solo scopo di far esplodere (in alcuni casi in maniera tangibile) fiorenti realtà. Tali strutture avrebbero portato occupazione, benessere e soprattutto dignità. Va purtroppo ravvisato il “modus pensandi” di molte persone “influenti” di allora, che attaccavano aspramente il progresso industriale. Si asseriva che l’industrializzazione toglieva “braccia utili” all’agricoltura e di conseguenza, forza lavoro ai grossi proprietari terrieri. Molti di questi grandi possidenti sfruttavano i contadini, spesso analfabeti, per i loro comodi personali. L’industria non veniva incoraggiata, ma ostacolata ad ogni mezzo, in quanto, la stessa, avrebbe significato la fine del latifondismo, la fine del “comando” mafioso – ndranghetistico e la distruzione di molte “famiglie”. Negli anni le famiglie, quelle vere, avrebbero dovuto fare i conti con la fame e con il nero del bisogno, che si contrapponeva alla luce della speranza. Codeste persone, piuttosto che attendere la manna dal cielo e morire disperati, hanno ritenuto opportuno andarsene. In massa, i piccoli centri locridei si sono desertificati in tempi brevi. Molta gente è partita alla ricerca di un’esistenza più dignitosa al nord Italia o addirittura all’estero. Tutto ciò appare come un “sermone” che si ripete da oltre un cinquantennio: l’emigrazione, l’abbandono, lo sradicamento. Purtroppo tutto ciò, ancora oggi, ha un senso… Molti meridionali hanno riscattato se stessi e le propria terra, divenendo esponenti di rilievo nei settori più disparati. Chi è rimasto è divenuto ormai nostalgico: valuta con novizia di particolari un passato colmo di speranza, ma è costretto a vivere in un presente logoro e stanco. Occorre una rivoluzione, una presa di coscienza totale e globale. Parlando di rivoluzione il film di Panuzzo si è dimostrato valido, visto che invocava una rivoluzione giovanile attraverso la musica dei Beatles. Oggi però una sana, ma determinata rivoluzione, sarebbe sufficiente a cambiare ed a sovvertire un sistema inespugnabile?
Ruggero Sorbillo