Ricordami De Andrè, a diciassette anni dalla sua morte
Non potrò mai dimenticare il momento in cui ho ascoltato per la prima volta una canzone di Fabrizio De Andrè, e non potrò mai ringraziare abbastanza mio zio per avermela fatta ascoltare.
La canzone in questione era “La guerra di Piero, che in quell’ occasione mio zio mi ha spiegato più o meno così:
“Vedi, Piero è costretto ad andare in guerra e si rifiuta di uccidere il proprio nemico perché in lui vede semplicemente un uomo, con il suo stesso stato d’ animo.
L’ unica differenza tra loro è data dal colore della divisa: solo questo li rende rivali”.
“Allora perché invece Piero viene ucciso?” domandavo io, incerto.
“Per paura. La paura fa fare agli uomini cose spesso incomprensibili”.
Mi piaceva proprio questa spiegazione e, sebbene non ne sapessi ancora molto, iniziava a piacermi anche Fabrizio De Andrè.
Certo consideravo ingiusta la morte di Piero ma amavo l’ idea che in fondo gli uomini, sotto la metaforica divisa rappresentata dalle diverse storie delle diverse esistenze individuali, fossero, in quanto esseri umani, sostanzialmente tutti uguali.
L’ undici gennaio 1999, diciassette anni fa, moriva Fabrizio De Andrè, straordinario cantautore e poeta italiano, che attraverso le parole dava musicalità alla canzone.
Non sono all’ altezza di analizzarne le opere e la grandezza, per cui mi limito a cercare di dire perché, a mio avviso, le sue canzoni risultino ancora oggi attuali, probabilmente immortali.
De Andrè è riuscito più di ogni altro a raccontare la vita, la società e l’ uomo, con la sua fragilità, le sue paure, i suoi vizi, le sue debolezze.
E lo ha fatto guardando il mondo dal punto di vista degli ultimi, di coloro che, proprio per l’ imperfezione della propria esistenza, meritano attenzione anziché emarginazione, comprensione anziché giudizio (o addirittura pregiudizio).
D’ altronde, “… se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”.
De Andrè ha cantato tutto, ma probabilmente ha cantato più di ogni altra cosa la libertà.
La libertà di “Princesa”, nata in un corpo maschile ma con natura femminile, di difendere il proprio diritto ad assomigliare a se stessa.
La libertà di “Bocca di rosa” di fare l’ amore per passione..
La libertà nell’ addolcire la morte di Marinella che, prima di “volare in cielo su una stella”, riesce ad amare, veramente e completamente.
La libertà del popolo rom, di cui si parla all’ interno della canzone Khorakhanè, che trova l’ identità nella propria natura nomade.
La libertà del “pescatore” che offre senza pregiudizio pane e vino all’ assassino in fuga ed ignora i gendarmi, quindi l’ ordine costituito.
La libertà del “Suonatore Jones”, che nel suonare “per un fruscio di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco” afferma la propria idea di libertà.
La libertà di “Un blasfemo”, che viene ucciso da guardie bigotte restando però fedele alla convinzione che sia preferibile non avere alcuna fede.
La libertà di Piero, che viene ucciso ma che decide di non uccidere, di non cedere alla guerra la propria umanità.
La libertà di Luigi Tenco, nella canzone “Preghiera in gennaio” a lui dedicata, di preferire la morte all’ odio e all’ ignoranza del mondo.
Qualsiasi forma di libertà, De Andrè l’ ha cantata, conferendo sempre ai suoi personaggi dignità senza mai privarli di autenticità.
Forse De Andrè è immortale attraverso le sue canzoni perché ancestrale e costante, è l’ aspirazione dell’ uomo alla libertà.
Forse De Andrè è immortale perché, in un mondo in cui tendono a trionfare gli stereotipi ed il pensiero unico, spesso si avverte la necessità di cambiare prospettiva, per riprendere fiato e continuare a vivere.
O forse, più semplicemente, De Andrè è immortale perché gli uomini straordinari meritano di essere ricordati.
Nel dubbio, io ascolto quelle canzoni ancora oggi, sempre grato a mio zio per avermi spiegato che, secondo un certo Fabrizio De Andrè, anche se portiamo divise di un altro colore, abbiamo tutti lo stesso identico umore.