Le albe di Brunilde
Imperversavano pieni di tensioni gli anni settanta del secolo passato, quando da un igloo piantato sotto i pioppi del campeggio sul mare, lei apparve bionda, eterea e carnale come la venere celeste e terrena dalle forme perfette che Botticelli fece nascere dal nicchio perlaceo per seppellire il buio del medioevo e annunciare l’avvento della nuova luce dell’età rinascimentale. Apparve abbagliante, e subito si è confitta nella smania dei sensi della gioventù del tempo, solitaria e marginale in un lembo di sud che si mostrava nelle vigorie e meraviglie naturali. Spinta dal soffio lascivo di un lieve zefiro, la cascata dei raggi del sole agostano l’avvolse in una visione d’incanto sensuale, ne trasmutò in un nuovo calore la pelle eburnea e diaccia di città e di terre dalle latitudini nordiche. Nessuno le chiese il nome e sulle labbra di tutti corse istintivamente il nome di Brunilde, come fosse quel pensiero fisso dell’inconscio che finisce sempre col tradirsi senza preavvisare. La statura alta e il corpo turgido, scolpiti vividi nel desiderio e nel sogno, rimandavano l’immaginazione delirante alle valchirie, mentre nelle vene un crescendo di note di strumenti a corde e a fiato impazzava nella cavalcata degli irruenti miti wagneriani.
Videro il sole e improvvisamente non lo videro più nell’attesa trepida che affogasse nel suo orizzonte acceso per trasmutare nelle fragili libellule delle notti inquiete. E nell’ombra argentea della luna, Brunilde attrasse tutti a sé e tutti trascinò con sè nelle suggestioni irresistibili dei suoni, dei canti e dei balli sulla spiaggia, ad aspettare l’alba attorno ai falò alti e dissacranti. Quelle fiamme bruciarono l’assuefazione ai modi di vita immobili e stantii, colmarono i vuoti e le ansie dell’essere con certezze ingannevoli, alimentarono sul planisfero di sabbia, sale e stelle i viaggi del corpo e della mente, ponendo gli occhi nei suoi occhi, stringendo le mani nelle sue mani, e furono amplessi della felicità effimera, illusoria e vuota di un mondo lanciato nella corsa della follia. Attraversarono estasiati i paradisi proibiti della terra e dell’universo, perdendosi nelle fauci di un drago ammaliante.
Con la prima pioggia di settembre, Brunilde andò via lasciandosi alle spalle le macerie della sua avventura, e vi tornò nelle estati successive, impiantando nuovamente sulla spiaggia il circo del drago ammaliante, Poi scomparve per sempre e per sempre qualcuno vi rimase prono con la faccia sulla sabbia.
L’ho vista tornare Brunilde, sorretta dai figli già grandi. Forse era tornata per compiere l’ultimo rito prima del distacco definitivo dalla vita. Era in piedi sul ciglio del lungomare, Il corpo decadente reggeva il volto della giovinezza corrotto dal tempo. Le rughe le disegnavano la maschera misteriosa della bellezza tradita. Guardava verso la spiaggia assorta nell’afa che gravava liquida e senza vento. I pioli azzurrini attraversati dalle cime marine delimitavano i lidi con i loro chioschi di legno, avevano cancellati dalla sabbia le orme incavate indelebili e gli aloni neri lasciati dai falò spenti del circo della disperazione. Tutto era cambiato e lei pareva immemore e distante, staccata dal mondo, quando all’improvviso divenne inquieta e agitata, come se davanti ai suoi occhi allucinati fossero apparsi dall’abisso i vecchi fantasmi delle estati finite. Il vento si alzava dalla terra e spirava verso il mare aperto sollevando crespi di onde invisibili come pensieri spersi, e il sole al tramonto allontanava distanti le ombre degli ombrelloni, le faceva sparire nell’interludio della sera che scandiva le ore vuote in cui nessuno più l’aspettava. Brunilde non esisteva più, era uscita fuori dal tempo, e dimenava furiosa le braccia al cielo coi pugni stretti. Imprecava contro l’acerrimo nemico che la dilaniava dentro.
Oggi ci sono tante nuove Brunilde e tante verità antiche.