Caulonia: prostituzione nero ebano
Dal budello della statale non la si vedeva nascosta com’era in attesa, seduta sotto il ponte dettato dall’attraversamento della fiumara, prima di sfociare e perdersi nelle spume del mare azzurro cobalto. Là, l’ampio greto ciottoloso si è arreso, restringendosi misteriosamente, all’avanzare degli orti cinti dai fichidindia, e le canne hanno proliferato invadenti come una fitta boscaglia squarciata dai fusti dei pioppi, elevati al cielo da veri giganti. Pareva che quel posto con la sua presenza lo conoscessero tutti e tutti la cercassero nel segreto angusto di un sottopasso per il brivido di un istante. Era alta come un baobab giovane e fiero, aveva la pelle d’ebano, quella vellutata delle veneri mitologiche, ed un sorriso eburneo pari agli occhi in cui affondava l’iride nera, profonda e splendente come diamanti trafitti dal sole. Le labbra lucide le contornavano il candore corrotto della bocca, si atteggiavano ad una ferita rosso sanguigna e carnosa delle savane albeggianti. Si intravedeva un top troppo corto per i suoi seni e le gambe nude accavallate poggiavano su tacchi alti. Le mani lunghe e affusolate terminavano con artigli di pantera, con unghie pronunciate, smaltate bianche perlacee; stringevano un cellulare, l’unica dimora fissa dei nomadi irrequieti del terzo millennio, Non aveva nulla a che fare con le prescrizioni del Corano, e il maquillage del volto e l’eleganza dell’abbigliamento erano perfettamente uguali a quelle raffigurati in certe riviste di moda occidentali, traditi soltanto dal colore della pelle che da noi si è resa una tonalità usuale.
V’era la rappresentazione plastica dell’attraversamento contaminante di mondi distanti, opposti e in conflitto, della distruzione di un sogno, delle aspirazioni di vita e di futuro disperatamente cercate al posto dell’apparizione sofferente, effimera e indigente senza valore alcuno. Ha viaggiato con il fiato fetido della morte sul collo; ha mosso i suoi passi su abissi ignoti di deflagrazioni vaganti, degli improvvisi bagliori di sangue dell’infinita tragedia dei popoli affamati, resi fuggiaschi dalle guerre, dai conflitti tribali e religiosi, dalle pestilenze, dalle carestie. Nella sua terra immensa e meravigliosa, resa violenta e inumana, i colori sono forti e stridenti, si può vivere o morire per l’inezia di un destino comune, ordinario e beffardamente crudele. E il morire appare desiderata alternativa al vivere. Le tempeste di vento levigano, corrodono le pietre in forme deliranti, e furiose sferzano e muovono le dune cocenti e aride del vuoto Sahara, disegnano scenari mutevolmente allucinati e sempre uguali nei labirinti degli affanni caliginosi e stracchi di chi obbligatoriamente li deve attraversare nel suo peregrinare ad altra esistenza, cancellano orme di addomi in preda alle febbri, di piedi laceri e piagati, e sotterrano corpi assetati, li conservano rinsecchiti e contratti nello spasmo dell’ultimo respiro come reperti archeologici urlanti le tante follie dell’iniqua avidità dell’uomo.
Si sarà resa oggetto inerme di torture, di ricatti, di stupri? E’ difficile, se non impossibile, uscire indenne dall’impero dove la legge è quella corrompibile, della sottomissione spoglia al più belluino, al più prepotente fino a subirne la più indicibile delle crudeltà insensate. Sicuramente si è consegnata nelle mani potenti dei trafficanti di carne umana. E di nuovo in compagnia della morte ha attraversato il Mediterraneo dentro un guscio di noce. Non ha fissato l’immenso caleidoscopio del cielo trabocchevole di strabilianti forme, luci e colori sospesi sulle acque dall’alba al tramonto e nelle notti di plenilunio, e neppure ha avvertito i morsi della fame e l’arsura della sete che le vuotavano il corpo, ma ha teso costantemente l’orecchio al moto e al frangersi delle onde, al rombo frastornante del motore che se si fosse arrestato avrebbe imposto la fine del viaggio e della vita. Ha visto un profilo ondivago e sempre più corposo steso sul filo dell’orizzonte. La barca avvicinandosi lo innalzava e lo restringeva allo sguardo e tutto lo schiariva come se si compisse sotto i suoi occhi il ripetersi del miracolo primordiale dell’emersione delle terre sulla superficie del mare. Ha compiuto esausta l’ultimo salto sulla battigia compattata dalle onde e si è sentita felice la prima volta nella sua vita. Tutto era finito e tutto ricominciava come se certe vite siano definitivamente segnate dalla sofferenza.
Ora è qui! E mi è difficile pensare che non sia caduta in altre mani che della carne e della dignità umane ne fanno un commercio lucroso. Forse avrà una famiglia sepolta alle spalle, oppure è la stessa famiglia che le sarà tornata prepotente nella mente: il padre umiliato e sconfitto ogni giorno al cospetto della moglie e dei figli; la vana e continua ricerca di un qualsiasi lavoro defaticante, di un’ora soltanto, di un solo giorno; la ricerca nelle discariche d’immondizia delle cose da vendere per pochi spiccioli. Le mani tese, le implorazioni caritatevoli inascoltate. Avrà sentito il pianto notturno dei fratelli più piccoli. Per loro ha deciso di dare tutta se stessa, di ricevere poco in cambio del tributo altissimo pagato all’occidente egoista e vorace.