Visita al museo di Kaulon
di Francesco Tuccio
Laddove la costa ionica volta e si perde per arcuare e risalire concava verso il nord della Calabria, s’eleva l’antico Capo Cocinto (Punta Stilo) col suo faro erto e panoramico. Lo si vede bene dal largo della grande fossa dell’Allaro, e appare propaggine delle Serre, ultimo profilo di terra e di cielo azzurro terso che discende dalle alture sperse e si consuma fendendo la superficie circolare del mare. Segna il confine oltre il quale pare ci siano soltanto acqua e immaginazione nella visione di lontananze intrise di leggende e miti. Balzano chiari dalle velature e dal baluginio delle albe e dei tramonti di bonaccia, quando le brezze e le correnti sono immote e i cirri di spume dormono oziosi, e i delfini e i tonni affiorano eleganti e possenti dalle profondità striate di luce in tralice, e le caretta caretta parlano con fiato umano.
Ne ho sempre subito il fascino, e tante volte l’ho solcato con la barca quel tratto di mare, crocicchio di storia e ignoto museo sommerso delle civiltà racchiuse negli eoni del tempo. E ogni volta mi sono fermato davanti a Capo Cocinto per immaginare come potesse apparire Kaulon agli occhi dei legni spinti dai lunghi remi e dalle vele quadre, con le prue minacciose della distruzione, oppure con quelle pacifiche dei commerci delle granaglie, dei vini e dell’olio, della pece e del legname, dei metalli e del vario e ricco, fine vasellame. La barriera cementificata delle case, come congiunte e distese lungo le strade statale e ferrata, riempie la fantasia di linee e forme uguali e monotone, di materie opprimenti, di cecità sprezzanti; la disturba, la uccide. Di tutta una città achea con le mura di cinta fortificate, gli edifici, l’agorà e il tempio dorico eretto al culto di Zeus Homarios e di Afrodite è rimasto l’esile terrazzo salmastro scavato dall’Orsi. Dal mare e dal cielo lo sguardo dilata penetrante e la terra appare nella diversità sfigurata di un volto indignato e ferito dall’uomo; e le ferite son tante, profonde ed estese, impediscono di sognare e di pensare ad altro.
Ora che gli ardori del mare mi scemano nel ricordo e mi sento più immobile e terreno, l’ho percorsa in macchina quell’inezia di venti chilometri che mi separa per visitare il nuovo Museo di Monasterace dell’antica Kaulon. Entrando, mi dico che non devo ingannare me stesso: questo è molto più di ciò che appare e bisogna impegnarsi a guardare più nel profondo. Mi è parso di attraversare uno squarcio nel muro buio, impenetrabile delle colpevoli insipienze e indifferenze, degli occhi strabici che torcono lo sguardo dalla bellezza e dalla cultura salvifiche, affinché nulla cambi e tutto dissolva nel fondo limaccioso del non ritorno in cui la Calabria annega giorno dopo giorno. Finalmente, sento la rabbia e il senso di impotenza cedere il passo alla speranza, all’ammirazione stupita, allo smarrimento di fronte al dedalo dei secoli dei quali le testimonianze si fanno messaggere di un passato straordinariamente fiorente, parlano di un presente avvilente e si offrono a fondamenta su cui costruire la rinascita ad un futuro radioso.
Spiccano e rapiscono i motivi decorativi del frontone di un tetto; le arule, i piccoli altari, a cui si affidavano gli affanni domestici nel culto dei numi tutelari della famiglia; gli oggetti che riempivano i gesti quotidiani di quella vita; lo splendido mosaico pavimentale raffigurante il drago marino che ha dato il nome allo scavo dell’abitazione più lussuosa, la “casa del drago”; le anfore che contenevano e trasportavano le derrate alimentari; i grossi “kadoi” usati per il trasporto della pece impiegata in prevalenza nel calafato di navi e imbarcazioni; e ancora le armi rifrante nell’ultima battaglia della sconfitta definiva, e i resti del tempio dorico, e i vasi dominati da eleganti figure nere, dai quali paiono trasparire tenaci i profumi trascorsi degli oli e degli unguenti in essi contenuti. Ciò che fa divagare lungamente il pensiero sono le coppe e tra esse la prestigiosa kylix, in cui gemeva fluente il vino del simposio. Guardi e odi le leggiadre etere cantare, danzare e suonare l’aulos, la lira, la cetra, mentre i drappi delle vesti volteggiano soffici e trasparenti. Guardi e odi le accalorate discussioni degli uomini dotti spaziare tra le muse, ricercare il senso della vita e della storia, scrutare la natura e l’universo; dei pitagorici, parchi e rigorosi, impegnati nel disegno dello spirito, della morale e dell’etica del governo del bene comune; dei nobili eletti trattare gli affari cruciali della polis e le ragion di stato delle alleanze tra eserciti, popoli, città-stato. Riecheggiano i voleri dell’Olimpo e le profezie di oracoli e indovini.
Un sentiero erboso attraversa la ferrovia, conduce al piccolo spiazzo degli scavi, pericolosamente sporto sull’assottigliata, debole striscia di spiaggia, preda dei flutti voraci del mare, dell’unico testimone che nelle increspature turchine custodisce storie e vite scolpite nelle pietre dei diroccati templi, porte e colonne, e che l’incuria dell’uomo vorrebbe cancellare. Qui Pythokritos, figlio di nobile padre, è intento ad erigere nell’agorà la statua a Zeus, lo guarda e compie i sacri riti votivi, rinnova quel rapporto intimo di reciprocità che stringeva nel fato uomini e dei, mortali e immortali. E’ scritto indelebile nella tavola bronzea in alfabeto acheo, e rivive ancora oggi, come in ogni istante del tempo infinito. E il respiro si fa affanno, indugia e s’addensa nelle vivide atmosfere avvolgenti del peregrinare a ritroso nei millenni, si rigenera e trova le nuove energie sapide di futuro.