La fierezza di San Nicola
Le vedi volare quelle case arroccate, sovrapposte l’una sull’altra, abbracciate per farsi forza e sfidare il tempo. Cullate da un canto scrosciante, volano sui bagliori della terra e delle vette montane, volteggiano incessanti sul vallone che le divide e le confluisce nelle acque dell’Allaro, come grappoli assetati e fitti degli acini che vi regnano solenni e sovrani. Portano con sé la trama dei vicoli che si addentrano come meandri ripidi, incuneati e ristretti, dove scorre affannata la vita, rivelando nel passo e nel sudore il segno di un sangue che è familiare.
Dai piedi delle falde, diparte e scorre a scalare il susseguo degli orti coi rivoli d’acqua, raggiunge l’abitato e lo avvolge, sparge dalle ombre umide degli olivi le fragranze e i vapori antichi a cui risponde il gracidio dei solchi verdi, allegri e canterini. Le caldaie fumanti e il grido arrossato dei maiali scannati scaldano l’inverno e compiono il rito della festa, il sacrificio all’abbondanza augurale intinto nei boccali del vino rosso, sincero e ospitale, che scorre a fiotti sulle tavole imbandite e riempie l’aria degli umori fruttati, sapidi delle cromie pastello e dei tonfi sonori delle dolcezze autunnali.
A San Nicola non manca nessuno dei doni splendidi della natura. Le sponde della fiumara verdeggiano fiere del colore degli aranci, dei pioppi e degli oleandri, e la vite risale paziente per i terreni acclivi, le aie e i palmenti con le ginestre, i fichidindia, i fichi, i ciliegi e i gelsi, e gli fan corona nelle alture imperiose e nelle pieghe scarne le eriche, i castagni, gli ilici e le querce. I ghiri sbucano silenti dal folto dei rami, saltellano e gonfiano con le ghiande, e i cinghiali rotolano nelle pozze stagnanti dell’insoglio, vagano per i crinali di collina e di montagna, discendono nei coltivi ai piedi della valle, e gli speroni di roccia sono squarci protesi al cielo. La roccia regna padrona nel cuore dei suoi abitatori, ne incide le asprezze, le gole e le forre in cui perdersi e rinascere.
Ma San Nicola è un recesso nelle viscere di un sud piagato e ribelle. Indomito insorse contro chi soleva comandare sugli uomini, le terre e gli animali, ma non poté trattenere i suoi figli dispersi per le strade del mondo, partiti col pensiero già rivolto alla nostalgica memoria ed al proposito vano di ritornare. Non vi tornarono! E lo si capisce bene da certe case scheletrite, coi tetti e i pavimenti e i balconi crollati. Sulle creste scoperte dei muri crescono le piante erratiche che si nutrono delle loro midolla, e l’intrico dei rovi ha invaso le stanze, coperto le polveri, raggelato le voci, i pianti e le squilla argentine dei bimbi e i grossi sospiri trascorsi. Sui gradini di pietra consunta sono cesellate le orme incavate da chi le ha percorse; sono nude ed esposte al sole e alla pioggia, e ne custodiscono le storie dei focolari spenti nell’oblio del tempo.
Ora, il paesino è un riflesso flebile di quello che fu, l’abbandono è il segno più evidente e le generazioni si avvicendano sempre più solitarie, ma non smettono di vestire l’abito antico della fierezza.