Calatria: zappatori di vigneti
E’ passato il tempo in cui il gallo cantava e ispirava le poesie di Franco Costabile:
“Al Muragliene
il gallo canta
e il bracciante
è già nella vigna
che si sputa le mani
e incomincia a zappare.”
Ma a Calatria quel tempo è sordo, duro a morire, alita ancora nei sussulti di vita in languida, lenta agonia. I pendii impalati dei vigneti, orlati da fichi, fichidindia e melograni, i brandelli dei terrapieni, arginati dai muri a secco di pietra scalfita, brulicano di pampini verdi e germogli teneri di primavera. I primi raggi del sole che penetrano la valle staglia le sagome ossute, i petti protesi, le schiene ricurve, l’incarnato scuro e rugoso degli uomini con la zappa sibilante nell’aria ancora arrossata. All’ombra dell’albero dolce, le giacche appese muovono al vento con un leggero sussurrio di foglie, e attendono cullate le salviette rigonfie, l’orcio dell’acqua e la bottiglia del vino. S’odono i fendenti secchi sulla terra arsa e pietrosa, e il sudore stilla a inseminare ogni zolla. Sono i proprietari di piccole vigne che nell’ultima estrema difesa stringono alleanza e scambiano le giornate di lavoro. Calatria è, ormai, una manciata di uomini sognanti, solitari e solidali in una infima sacca scordata dal mondo. Resistono al tempo aggrappati alla tradizione millenaria, ai dettami della luna, ai fianchi ripidi di collina e di montagna, e alla natura che li avvolge con braccia aspre, avare e copiose.
Sanno che la vite è una dea volubile, fragile e generosa, e la colmano degli ardori dovuti alle spose fresche di nozze per essere corrisposti con i lunghi tralci e i grappoli fitti di acini giallo dorati e viola bluastri. Il vino tempra le fatiche, asciuga i crudi pensieri, rinnova le memorie perdute di palmenti e pigiature nel crepuscolo che pare infinito, e, intanto, rinverdisce l’ospitalità dell’antica cultura contadina.