A sua maestà il tonno rosso
di Francesco Tuccio
I giorni passano leggeri come le ore e l’estate caliginosa si avvicina a passi rapidi. Il mare ritorna confortevole nelle nostre vite e i pescatori sportivi hanno più tempo da dedicare alla loro passione. Sua maestà il tonno rosso, il grande migratore del Mediterraneo e delle nostre coste sabbiose, è già girovago impaziente nelle acque alte e si presta a farsi la preda più ambita, il sogno epico inseguito nelle notti ansiose, nelle vigilie dense dell’attesa della “singolar tenzone”,, .
Come ogni nobile di antico e alto lignaggio, sembra indifferente alle albe e ai tramonti. Predilige le acque calde, quando il sole si è staccato dalla linea dell’orizzonte e il mare è un baluginio di luci come uno specchio immobile e cristallino, i piccoli branchi risalgono dalle irradiate profondità azzurre della grande fossa dell’Allaro e si mostrano in tutta la loro fugace magnificenza. Il tonno rosso è eleganza, bellezza, forza, velocità, astuzia; ha la voracità del predatore e l’indole indomita del combattente. E’ un compendio delle virtù più elevate della natura, e, perciò, non finisce mai di stupire, di destare ammirazione, incutere rispetto.
Ammirazione e rispetto. I sentimenti dovuti per riparare all’unico modo subdolo con cui il pescatore si può confrontare: il ricorso all’inganno. E l’inganno dell’esca deve essere perfetto per vincerne l’innata diffidenza. Occorre conoscere le condizioni del mare e la reazione della barca sotto la spinta dei venti e delle correnti. La pastura, con la barca alla deriva, deve richiamare e far risalire il branco nello stesso percorso in cui è inevitabile l’incontro fatale con l’esca. La concorrenza, la voracità e l’egoismo sono i punti deboli che portano alla ferrata il più attento, il più forte, il più veloce, spesso il dominante del gruppo.
Quando sei baciato dalla fortuna il tamburo del mulinello s’impenna, sibila, gira velocemente, il cuore e il respiro s’arrestano, il tonno è un siluro che corre con tutte le sue forze verso l’incantevole fondo lunare della fossa, custode gelosa nel suo ventre del crocevia della storia dei millenni, delle forze generatrici della terra mai sopite. Conosce bene i suoi tratti fangosi, le scogliere, gli speroni di roccia, le gole, gli anfratti, le spelonche buie, i tronchi e i rami degli alberi trascinati a valle e depositati dalle piene alluvionali della fiumara. Lì ha cercato le sue prede, si è nutrito con i banchi delle sardine, delle acciughe, degli sgombri, ha ubbidito alle leggi primordiali della natura nel paradiso perduto dei delfini danzanti e giocosi, delle tartarughe Caretta Caretta vetuste come animali preistorici, degli scorfani rossi e spigolosi, dei merluzzi dai denti di spillo, delle “cipolle” (mustele) nere e baffute o dal naso rosso del beone e il manto argentato, dei gronghi grandi come boa, delle granseole dalle chele esili e spropositate, delle cernie che si cullano all’ombra dei relitti e dei “tronconi” (cernie bianche) che si annidano tra gli alberi sommersi, delle cicale e dei gamberi fluorescenti, delle passe ribollenti dei cefali e delle mormore, degli occhioni e dei sugarelli. Ancora non sa che può perdere la vita, ma di certo avverte che un filo sottile gli ha tolto la libertà, l’unica ragione per cui la vita stessa merita di essere vissuta anche nel mondo marino. Cerca qualsiasi appiglio per tagliare quel filo che non si oppone, ma lo segue implacabile nella sua corsa disperata, non lo lascia. Il cuore riprende a battere forte nella gola, il respiro diventa affanno, il sudore scorre a rivoli sotto il sole rovente, entra negli occhi, brucia le pupille. Ora bisogna controllare l’emozione, usare il cervello nella testa divenuta pesante, le mani e il corpo fermi, sicuri, ubbidienti e coordinati nei movimenti. E’ appena incomincia la mitica lotta tra Davide e Golia. Le forze sono impari e il filo che le lega è sottile, non potrà essere mai abbastanza robusto. Occorre immaginare il peso, le dimensioni, la forza; prevedere, essere pazienti e pronti alle improvvise possenti sfuriate. Tenere il filo sempre teso, recuperarlo lestamente quando la resistenza della preda lo consente, non giungere mai al carico di rottura nelle ripartenze in direzioni diverse, mai uguali negli interminabili momenti in cui roteando risale lentamente disegnando una spirale sempre più stretta, sempre più vicina alla barca. Lo vedi luccicare, una macchia striata d’argento si avvicina e si ingrandisce, si confonde ad ogni virata, s’intona con l’azzurro del mare, si riempie di luce, emette le bolle dello sfinimento che come diamanti risalgono in superficie e svaniscono assieme ai suoi sogni, ma non puoi essere mai sicuro finchè arpionato non giacerà sul fondo della barca dimenando la coda possente: di certo raccoglierà le ultime forze nell’estremo tentativo di riprendere la sua libertà, di tornare ad attraversare felice le colonne d’Ercole della Rocca di Gibilterra, di guadagnare l’oceano e ridiscendere negli scenari sconfinati lungo le coste dell’Africa, fino all’equatore.
Sei un puntino sperso nell’immensità, il bianco della fiumara disegna il gioco sinuoso della vallata, si fa strada nel verde delle colline, schiude le velature azzurrine delle montagne, il cielo e il mare sono fusi nello stesso colore, guardano attoniti e solo quando è in barca puoi emettere un sospiro di sollievo nell’afa opprimente. Il valore naturale e simbolico di sua maestà ti impediscono di gioire. Non puoi essere orgoglioso dell’inganno usato per catturarlo. Ma perché l’hai fatto? Forse per rinnovare un istinto primitivo e selvaggio.