Rosarno, a 7 anni dalla rivolta situazione ancora disperata. L’articolo di “Repubblica”

Rosarno, a 7 anni dalla rivolta situazione ancora disperata. L’articolo di “Repubblica”

Situazione difficilissima nella tendopoli costruita nel 2010 nella Piana di Gioia Tauro. Dei progetti di “accoglienza diffusa” non si è saputo più nulla

di Alessia Candito.

Sekuman non aveva mai visto la neve. L’ha scoperta a San Ferdinando, qualche notte fa, quando le temperature sono precipitate e anche sulla tendopoli dei braccianti ha iniziato a fioccare. “Non molto”, dice nel suo italiano stentato. Ma quando ha smesso è stato peggio. Nella Piana di Gioia Tauro le temperature sono scese sotto zero e nella tendopoli la situazione già complicata è diventata proibitiva. Qualche volontario si è presentato con vestiti e coperte asciutte, ma per due giorni, non c’è stato falò o braciere acceso nelle tende che riuscisse a scaldare i braccianti lì in attesa dell’ennesima giornata a cottimo nei campi.

Sono lì “temporaneamente” dal 2010. Quell’anno, la notte del 7 gennaio 2010 i migranti erano scesi in piazza con rabbia per protestare contro il ferimento di uno di loro, un “fratello” a cui qualcuno per gioco aveva distrutto un braccio sparandogli con un fucile ad aria compressa. Auto danneggiate, cassonetti dati alle fiamme, qualche sasso lanciato contro le vetrine. Stanchi di essere picchiati e derubati, di essere sfruttati nei campi e costretti a vivere come bestie in edifici fatiscenti senza né elettricità, né acqua, né bagni, i migranti avevano dato sfogo alla loro rabbia. La mattina successiva alla “rivolta di Rosarno”, si era scatenata la caccia al migrante. Pestaggi, rifugi dati alle fiamme, gruppi di cittadini inferociti determinati a “mettere ordine”. Ci sono voluti giorni perché la situazione tornasse alla normalità. Nel frattempo, la maggior parte dei braccianti era fuggita, scortata da polizia e carabinieri. La “Cartiera”, la fabbrica fatiscente in cui molti trovavano rifugio è stata abbattuta. Quando l’anno dopo i migranti sono tornati per la nuova stagione delle arance è nata la prima tendopoli, lontana dal paese, nascosta nella zona industriale di San Ferdinando, fra i mille capannoni vuoti nati come funghi grazie alla legge 488. Un ghetto in un cimitero di attività mai partite.

Doveva essere una soluzione temporanea, ma sette anni dopo, poco o nulla è cambiato. “Nonostante i buoni propositi – ha detto di recente il sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà, invitando il ministro dell’Interno Marco Minniti a visitare la città – la situazione è sempre disperata. La città è letteralmente invasa da migranti che vivono in condizioni disumane e l’agricoltura, primaria fonte di sostentamento per rosarnesi e immigrati stessi, è sempre più in ginocchio. Siamo ancora in piena emergenza e nessun modello di integrazione è stato concretamente creato”.

Ph. repubblica.it

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Rosarno, nella tendopoli di San Ferdinando: a 7 anni dalla rivolta è ancora emergenza

Stagione dopo stagione, la tendopoli è diventata un punto di riferimento per i braccianti che si spostano per l’Italia in cerca di lavoro. Ma c’è chi nel campo ci vive tutto l’anno, come Ousman che di mestiere ripara le bici con cui i migranti si spostano lungo le strade della Piana di Gioia Tauro. Lui era lì anche l’anno scorso, quando Sekiné Traoré è stato ucciso dal colpo partito dalla pistola di un carabiniere. Una tragedia che ha riportato la tendopoli al centro delle attenzioni istituzionali. “Di lì a poco è stato firmato un nuovo protocollo operativo fra Regione, prefettura e operatori – dice Giulia Bari, coordinatrice del progetto Terra giusta di Medu (Medici per i diritti umani) – Sulla carta, prevedeva una nuova tendopoli, provvisoria, destinata ad ospitare temporaneamente i migranti e l’avvio di una serie di progetti di accoglienza diffusa a Rosarno e nei paesi limitrofi”.

Le nuove tende sono state comprate e montate, è arrivato qualche nuovo container doccia e i migranti sono stati traferiti a circa 500 metri dal vecchio insediamento. Delle politiche di accoglienza diffusa invece non si è mai saputo nulla. “Ci piacerebbe chiedere alla Regione che fine abbiano fatto questi progetti. Da cittadina, ancor prima che da coordinatrice di progetto, vorrei capire com’è possibile che non si riescano ad individuare delle soluzioni. Qui a Rosarno e in tutta la Piana ci sono centinaia di abitazioni e fabbricati vuoti. È così complicato in questi giorni di freddo polare immaginare di trasferire lì i braccianti? E a lungo termine è così difficile pensare a sportelli di intermediazione abitativa per tutti, non solo per i migranti, che permettano di accedere ad una casa?”.

Domande cui la Regione non ha mai risposto. Eppure a Rosarno e nelle zone limitrofe gli esempi non mancano. In paese, da tempo la cooperativa Mani e terra, costola dell’associazione Sos Rosarno, è riuscita a scovare un appartamento in affitto per i suoi sei soci lavoratori.  A Drosi, grazie alla Caritas, 150 lavoratori migranti hanno trovato ospitalità in case del paese affittate a prezzo calmierato. A Cinquefrondi, un nuovo Spraar ospita 15 famiglie “in appartamenti, non in capannoni” chiarisce il sindaco Michele Conia “e di giorno si impegnano in tirocini formativi, mentre i bambini vanno a scuola”.

“Sono esempi che da Catanzaro non vedono evidentemente”, dice un volontario. Nel frattempo, con l’inizio della stagione delle arance, come ogni anno sono arrivati i braccianti. E come ogni anno la tendopoli si è gonfiata. Accanto alle tende del ministero dell’Interno sono tornate a nascere le baracche fatte di assi e teli di plastica che da anni colorano il paesaggio della Piana, si sono moltiplicati i bivacchi e le capanne di fortuna. I più fortunati hanno coperto il pavimento con dei teli di plastica, su cui buttano materassi malconci. Altri, dormono sulla terra nuda, che diventa fango quando piove. Per tutti, c’è solo qualche container con docce e servizi igienici. Assolutamente insufficiente. Ci si lava quando si può, con l’acqua riscaldata su fuochi e bracieri. “È complicato vivere qui” dice Sekumar, maliano da quindici anni in Italia, di cui sei in Calabria. Lui lavorava in fabbrica a Piacenza, fin quando la crisi non ha costretto lo stabilimento in cui lavorava a chiudere i battenti e lui a cercare lavoro nei campi. “Ho un lavoro, quest’anno mi hanno fatto anche un contratto, ma non ho trovato nessuno che mi affittasse una casa in paese. Per questo – racconta – sono rimasto qui”. E al campo la situazione è complicata.

Lontano dal paese, tra tende e baracche hanno trovato cassa ghanesi, sudanesi, ivoriani, senegalesi, maliani, nigeriani, congolesi. “Quest’anno, per la prima volta, ci sono anche molte donne” spiega Mamadou Dia, mediatore di Medu, “e questo potrebbe contribuire ad aumentare le tensioni”. Ogni giorno, all’alba se non prima, gli ospiti del campo si mettono in cammino per raggiungere la statale in attesa di un caporale che li contratti a giornata. “Rispetto agli anni precedenti, c’è stata un’involuzione. Prima erano i caporali a cercare i lavoratori, adesso sono i braccianti a cercare i caporali per poter lavorare”. Una giornata a raccogliere agrumi viene pagata 20 euro, o 0,50 centesimi a cassetta di arance raccolta e caricata sul camion. “Ma i soldi non vanno tutti ai braccianti. Bisogna anche pagare il trasporto ai caporali, tre euro se i campi sono vicini, cinque se sono lontano dal paese”, racconta Mamadou. Ma le nuove leggi contro il caporalato? “È vero che i contratti sono aumentati. Secondo stime parziali siamo a +32%. Ma si tratta sempre di lavoro grigio, perché formalmente si tratta di contratti che in due mesi prevedono solo dieci giornate lavorative, ma in realtà i ragazzi lavorano ogni giorno”. E quando finiscono tornano in tendopoli.

Chi non va nei campi, si è inventato il modo di sopravvivere. All’interno della baraccopoli sono nati piccoli spacci, vere e proprie macellerie, alcune officine, persino un paio di bancarelle di abiti. Una è gestita da Vera, nigeriana di 21 anni. È arrivata a Lampedusa qualche mese fa, dopo aver perso tutta la sua famiglia in una delle tante stragi firmate Boko Haram. Come tanti ha chiesto asilo, ma attende ancora che la sua domanda abbia risposta. “Nel frattempo, trovo il modo di sopravvivere. Non ho nessuno, quindi mi devo arrangiare”.

A dare una mano a lei come agli altri ospiti ci sono solo i volontari delle associazioni locali, la Flai Cgil, un pezzo di chiesa. Poi ci sono i medici di Emergency e Medu. Giulia Chiacchella è una di loro. “Qui non ci sono malattie d’importazione. Qui ci si ammala di freddo, di lavoro e di condizioni igienico-abitative precarie”. Con il furgone-ambulatorio di Medu almeno due volte la settimana va alla tendopoli per assicurare ai migranti assistenza sanitaria, ma anche per spiegare loro come muoversi nel labirinto della sanità calabrese. Gli altri giorni invece presidia l’ambulatorio. “Per adesso siamo in una struttura fatiscente, in cui spesso manca anche la luce. Ma continuiamo a tenere aperto, perché tutti abbiano diritto ad essere curati”.

Fonte: repubblica.it

 

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