L’amore pasquale di Filomena, celestiale e terreno

L’amore pasquale di Filomena, celestiale e terreno

Meglio chiamarla Filomena! Darle un nome, oggigiorno, abbastanza desueto e, perciò, più adatto a nascondere agli occhi indiscreti una persona realmente esistita.
Era bella? Difficile dirlo: bello è ciò che piace e Filomena ebbe i suoi corteggiatori di buona famiglia come la sua. Aveva un viso fresco e naturale irrorato dalle albe primaverili, il profilo delicato incorniciato nei capelli castani, lunghi e fluenti fino agli omeri; vestiva con decorosa eleganza, senza sfoggiare abiti attillati, orecchini e collane; neanche un filo di rossetto sulle labbra o di matita sulle ciglia, né di ombretto sulle palpebre che avrebbero potuto renderla più bella e desiderabile delle sue coetanee.
In Italia avveniva quella tumultuosa rivoluzione dei costumi a cavallo degli anni ‘60 e ‘70 ed a Caulonia si sentivano i suoi benefici effetti liberatori. Le ragazze accorciavano la gonna, indossavano i blu jeans e si incontravano finalmente libere per amoreggiare con i ragazzi a piazzetta Bellavista, a quella del Municipio ed i più arditi s’avventuravano a passeggiare sulla provinciale fino alla curva del “Gadu” per rubare qualche stretta di mano, qualche abbraccio, qualche bacio innocente e fuggitivo, mentre il cuore batteva più per il timore di essere visti.
Ma per Filomena erano rimasti i luoghi tradizionali dove erano nati gli amori di tutti i tempi. Si poteva solo sperare di incrociare il suo sguardo sereno e profondo mentre si recava in chiesa, durante le funzioni religiose, nelle processioni. sempre con quella sua veletta candida e trasparente appuntata sulla chioma flulva con uno spillo dorato. Ai saluti riverenti e galanti rispondeva per buona educazione, timida e risoluta a far cadere ogni più ardente speranza. Difficilmente incrociava lo stesso sguardo per due volte. Il padre era stato sempre costretto a declinare con imbarazzo e garbo ogni domanda di matrimonio, pur conveniente. Lei, invece, aveva già scelto lo sposo che non avrebbe mai tradito, e, forse, avrebbe consumato quell’unione assoluta e duratura per questa e l’altra vita in clausura. Buona, amorevole ed ubbidiente non avrebbe potuto straziare il cuore dell’anziana madre che, avendo già perso l’unico figlio nel fiore tenero dell’adolescenza, non voleva, ostinatamente, saperla rilegata in qualche chiostro, sacrificata nella solitudine di qualche misera cella claustrale lontana da casa, nascosta alle gioie e ai dolori del mondo.
La settimana santa a Caulonia ha radici che si perdono nella notte dei tempi. Dalla domenica delle Palme, alla domenica di Pasqua è un intenso susseguirsi di manifestazioni che celebrano tutte le stazioni della passione di Cristo con grande, sentita, partecipazione di popolo. Giorni straordinari di fede che non ha eguali in tutto il mondo cristiano. Ed in uno di quegli anni, come ogni anno da tempi immemorabili, giunsero i missionari predicatori, tra cui vi era un ancor giovane frate francescano che aveva stampato nella sua esile figura, nella sua tunica dalle pieghe molli e fluttuanti, quell’amore romantico ed ascetico per Dio, gli uomini e la natura del santo padre fondatore del suo ordine.
La Matrice era colma fino all’inverosimile; sotto le tre alte navate, con gli stucchi e gli ori resi scintillanti dal lume delle candele, dalle luci dell’altare e delle volte del colonnato avvolgenti e sovrastanti. Quella moltitudine ansiosa e sbalordita era rapita dalle parole che provenivano dal pulpito elevato, sorretto da una grande aquila dalle ali tese che pareva volesse portare in cielo il frate predicatore. Egli con mano espressiva e voce ferma compiva una disamina sottile delle colpe più recondite, si soffermava in una fosca e cruda descrizione dei castighi, lanciava strali ed anatemi contro i peccati. Poi, con tono di voce ora elevata ed ora sommessa e carezzevole, affondava nella passione: dall’orto del monte degli ulivi del calice amaro offerto al Dio fatto uomo, alla flagellazione e coronazione di spine, al giudizio umiliante dell’Ecce Homo al cospetto della turba ingrata, alle spalle barcollanti e cadenti sotto il peso del legno duro della condanna, fino alla crocifissione lancinante, all’agonia ed alle tenebre squarciate dalle folgori, alla luce abbagliante e soave della resurrezione. Scavava nei cuori più induriti, faceva vibrare di trepidazione le fibre più intime; elevava nelle visioni del Getsémani, della corte del riluttante Pilato e dei sommi sacerdoti; trascinava per le vie e le piazze di Gerusalemme, ed in un crescendo doloroso, in un requiem tragico, solenne, aulico saliva al Golgota per deporre dolcemente ai piedi della Croce quelle anime lacrimanti, estasiate e traboccanti di sospiri d’amore; infine, le liberava nel cielo terso e nel sole splendente di Pasqua, nato dal grembo della notte, nell’apoteosi della vittoria del divino sul profano, del bene sul male, della verità sulla menzogna, della vita eterna sulla morte.
Il frate si sporgeva sulla folla, appariva come trasfigurato nei gesti accorati e vibranti, con la testa tonsurata, la barba da cappuccino, le mani ed il viso pallidi della penitenza, gli occhi accesi dalla fede e dalle visioni celestiali; si sentiva in perfetta comunione con gli astanti ammutoliti e contriti, con le labbra che pendevano dalle sue labbra eloquenti, con gli occhi rapiti nei suoi occhi di fuoco, con i cuori che palpitavano tempestosi all’unisono con il suo.
Le note gravi e melodiose dell’organo si levavano in un inno di gloria che travalicava i vetri colorati della chiesa, risaliva la tromba delle scale del campanile, si perdeva nella piazza e nelle ombre della sera, mentre i fratelli in camice e cappuccio bianchi, con i cingoli e le mantelline corte dal colore della propria confraternita, con le croci tese in alto, poggiate alla base delle cinghie ad armacollo, s’incamminavano cantando nella “gira”, seguiti dai sacerdoti con gran sfarzo dei paramenti liturgici e l’aureola dell’ostensorio dorato con  il santissimo Sacramento a cui s’inchinavano prostrate due ali di folla.
La comunità placata, rinfrancata dal profumo dell’incenso, si sciolse, ognuno tornò a cassa sollevato, rinato, mondato dalle proprie miserie, ma Filomena rimase in piedi, ferma, cercò con occhi imploranti il frate, ardeva dal desiderio di confessarsi. Si accostò alla grata del confessionale con il petto in tumulto e con la gola e le labbra arse, sitibonde, emise un filo di voce calda. Parlò con lui dell’amore divino, delle colpe e delle perdizioni, delle tentazioni del mondo e della carne, delle lunghe notti angosciose sul suo letto verginale. Aprì del tutto il suo cuore come non avrebbe mai fatto con sé stessa ai piedi del Crocefisso muto. Sentì l’uomo, l’amico, il confidente, trasalire nel pallore ed nel rossore del medesimo vissuto, nelle stesse inquietudini dolorose, negli stessi pensieri fustigati. Si sentì con lui, si confuse in lui, si immedesimò in lui dolcemente in uno squarcio di umanità fragile, forte nell’aspirazione trascendentale ed in conflitto eterno con sé stessa, con il suo essere, con il suo sentire ancestrale. Vacillò ogni confine e distinzione tra l’amor sacro e l’amor profano, e il frate rabbrividì e si ritrasse rammendo l’ammonimento desi suoi maestri e confessori: il corpo lascivo della donna unito ai sentimenti e ai desideri era lo strumento della seduzione dell’Anticristo. Così, s’impose il vincolo indissolubile testimoniato dall’abito sacro, ed ella fu consigliata, sorretta, consolata in quell’abbraccio caloroso, ideale e casto della confessione. Filomena, nel mistero, nel segreto, nel silenzio assoluto e irreale lasciò la chiesa ormai deserta, inappagata e confusa.
Il frate andò via per sempre, continuando il suo viaggio caritatevole, la sua missione di fede. Filomena l’accompagnò con il pensiero per strade e paesi sconosciuti, sentì risuonare la sua voce in altre chiese, avvertì la sua immagine esile accanto a lei in ogni istante di vita, si accostò sempre all’altare come presa per mano dall’uomo vigoroso e dalla guida spirituale, nella pace sublime delle primavere in fiore, delle stelle splendenti nel firmamento. Egli l’accompagnava nel sacrificio e nella elevazione a Dio.
Già! Cos’è l’amore, qualsiasi amore, se non elevazione del sentimento umano?
 
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